the walking bus

The walking bus

Roma, sciopero della metro: sono le due, io ho soltanto un’ora di tempo per tornare a casa mentre la città è nel panico che manco Atlanta nella prima puntata di The Walking Dead. Che faccio? Esclusi taxi, calesse, risciò e monopattino, non mi resta che andare a cercare un autobus.

Dopo venti minuti trovo un esemplare di 87: riesco a entrare dalla porta davanti, mi incastro tra il battente e un palo, in mezzo metro quadrato che ospita già l’autista e altre 75 persone, poi mi accorgo del mare immobile di macchine tra Piazza Cola di Rienzo e Piazza Cavour. Tra un’ora sarò ancora lì, è chiaro, quindi avviso del ritardo, mi appollaio sul cruscotto dell’autobus e mi metto l’anima in pace.

Gli altri no, però, e iniziano ad accadere cose.

Belle cose.

All’altezza di Piazza Cavour un signore che passa sulle strisce vede il nostro autobus già pieno come la terza classe del Titanic al momento dell’impatto con l’iceberg: ci rincorre, ci raggiunge e, con l’aria di chi vuol salire a bordo, ma anche con l’aria dello zombie che ha sentito odore di carne umana, inizia a colpire con veemenza il finestrino dell’autista  (d’altronde, non c’è un cartello che vieti di parlare con lui, fuori dall’autobus).

Quello sobbalza, poi lo guarda con il giusto distacco professionale e dice ad alta voce, parlando più a se stesso che all’imprevedibile passante:

È arrivato Maciste, tiè! Bussa pure, questo! Nun se preoccupi, signo’, se vedemo alla fermata… Tranquillo che l’aspetto, tanto è vòto, no?” (Non so a voi, ma a me st’autista già mi sta simpatico.)

Questo siparietto, si capisce, è solo un assaggio di quello ci sta per succedere. Il bello arriva qualche minuto più tardi, quando arriviamo alla fermata successiva. A salire sono in tanti, a scendere un cazzo di nessuno. Quindi, se la matematica (o, in questo caso, la geometria) non è un’opinione, stiamo andando incontro ai guai. E infatti, arrivano presto le prime urla.

Una signora alla fermata, evidentemente in attesa di un altro autobus, si spaventa di fronte alla massa umana esterna che spinge per farsi spazio tra la massa umana interna:

“Oh! Autista! Ma che è matto? Ma perché non fa scendere tutta ‘sta gente?” (Genio).

“Signo’, non li faccio scende perché sto a’ aspettà che scoppia… così manco devo apri’ le porte, no?” (Più genio ancora. Ve l’ho detto che mi pare uno sveglio, questo!)

Un ragazzo dal centro dell’autobus sente lo scambio di battute e risponde, con il tono di chi non è per niente soddisfatto del servizio pubblico:

“A fenomeno! Guarda che così però ce rimanemo secchi… Tocca che te movi!” (Anche lui ha le sue ragioni, in effetti.)

“Eh, ma se te nun te levi da quella porta io riparto il mese del poi e l’anno del mai!” (Vedi perché non chiudeva? Perché l’idiota che si lamenta si è piantato nell’ultimo centimetro di spazio libero accanto al battente della porta, bloccandola‬.)

“E allora perché nun la lasci chiusa ‘sta porta?”

“Perché ce stai te davanti… devi da scenneee!!!”

Al centro dell’autobus si svolge un referendum istantaneo, il popolo sceglie l’autista, le masse si coagulano e scagliano fuori il baldanzoso giovane che rimane ad inveire sul ciglio della strada, mentre davanti al suo naso si chiude quella porta, che un attimo prima lui stesso ostacolava con i suoi piedi.

(Ci manca solo che la folla lo fagociti soffocandolo con livore, ma non si può avere sempre tutto dalla vita.)

Applauso generale e l’autista riparte.

Dopo circa un’ora dall’inizio dell’epopea, eccoci al Colosseo. Arriviamo in concomitanza con l’ora di uscita del liceo Cavour: un gruppo di una trentina di adolescenti, armati di zaini, borse, cartelle e berretti da rapper corrono in massa verso il nostro 87 ormai collassato.

Noi della prua dell’autobus, che rispetto a quelli della poppa siamo molto più pacati, civili, ormai ci chiamiamo per nome e chattiamo anche tra noi su WhatsApp, abbiamo un moto difensivo subitaneo e collettivo.

“Oddio, se sale la scolaresca, è finita.” Dice un signore che lavora in un ufficio di Ponte Milvio.

“Cazzo, questi ci ammazzano.” Gli fa eco un ragazzo che deve raggiungere la madre a San Giovanni.

Due signore coreane con gli occhi sbarrati dicono delle cose in coreano.

E infine: “Dobbiamo stare uniti.” Chiosa una signora anziana che, poverella, ha detto da subito che lei scende al capolinea.

Per un attimo ho una sensazione di déjà-vu, ma poi ripercorro l’avventura dall’inizio e finalmente capisco: questo non è uno sciopero, è un episodio di The Walking Dead.

E se c’è una cosa di cui sono esperta, sono gli episodi di The Walking Dead. Li so a memoria, so che sono tutti uguali e perciò so anche che — se vogliamo avere una speranza di sopravvivere alla scolaresca — dobbiamo trovare il nostro Rick Grimes, un eroe che ci guidi verso la salvezza.

E chi è il prode Rick a bordo di questo 87? È l’autista: l’uomo che ha già affrontato un’aggressione esterna e una interna, l’uomo che finora ha avuto la parola giusta al momento giusto, l’uomo che può diventare il nostro leader.

(E un vero leader sa cogliere sempre al volo l’occasione, quando gli capita.)

“Autista, ma perché non lascia le porte chiuse?” Chiede la vecchietta che deve arrivare fino al capolinea.

“A signo’ …ma se questi me citofoneno io je devo aprì…”

E lei, sardonica come solo certe vecchiette romane sanno essere: “Non lo so te, giovanotto, ma io a casa mia mica apro a tutti quelli che me citofoneno…”

Un sorriso diabolico illumina il volto dell’autista, mentre l’intero gruppetto della prua volge lo sguardo dalla vecchietta all’uomo al volante, con una scintilla di speranza negli occhi. (Abbiamo il nostro leader, gente della prua?)

“Vabbè, ‘ndo’ scendete?”

“Cesare Baronio…”

“Baccarini…”

“Capolinea, giovano’…ce lo sai.”

Alle quattro meno venti arriviamo a via Etruria. Fedele alla sua promessa, il nostro Rick ha continuato a tenere le porte chiuse, salvandoci — dalla scolaresca in poi — da ripetuti assalti di orde di zombie romani urlanti e ferocissimi. Ora l’atmosfera a bordo è molto più vivibile, abbiamo ripreso a respirare ossigeno invece che anidride carbonica e stiamo anche iniziando i convenevoli di saluto (oh allora, è stato un piacere… Sì, ma poi organizziamo una pizzata… Sì, dai lasciami l’e-mail… ecco bravo, nun famo che poi nun se vedemo più, però, eh…) quando il nostro Rick ci chiede:

“Oh regà, che famo, je apro a sta regazzetta alla fermata?”

Noi annuiamo: ormai il peggio è passato, possiamo tornare ad essere generosi e civili con gli altri.

La ragazza, vedendo le porte aprirsi, sorride e sale: “Grazie…” Ci fa, con un filo di voce, mentre si sistema in uno spazietto che le lasciamo accanto alla porta.

“Sei fortunata” le dico con aria da veterana di guerra. “Sei la prima che riesce a salire da un bel po’.”

E lei: “Ah, lo so bene! Vi sto seguendo a piedi da tre fermate… e in effetti non capivo perché non apriste.”

“Guasto tecnico.” Mormoriamo più o meno tutti (coreane comprese) mentre, fischiettando, abbassiamo contemporaneamente gli occhi sui nostri cellulari, ormai scarichi da tempo.