La libertà guida il 628

Il 628 è un autobus che non in molti conoscono. Collega l’Appio Latino allo Stadio Olimpico con un lungo tragitto attraverso il centro storico e implica un grado di pazienza tale che solo chi lo prende abitualmente sa realmente di cosa sto parlando.

È un mezzo che ti può far inveire contro Nostro Signore poiché, quando non passa, non passa per giorni interi. Per settimane, forse.
È un mezzo che può diventare la tua seconda casa visto che, con lui, sai quando sali ma mai quando scendi.
È un mezzo che ha il potere di incrociare sul suo cammino ogni incidente, ogni manifestazione, ogni veicolo guasto che Roma offra a partire dal momento in cui si lascia il capolinea.

È un mezzo, però, che sa come farsi amare, perché è parte del quartiere, perché lo prendono sempre le stesse persone, perché una volta a bordo non devi fare altro che sederti e guardarti intorno per gustarti lo spettacolo.

Quando salgo a bordo, saranno appena le sette. A quest’ora, dovete sapere, a bordo del 628 ci sono prevalentemente ministeriali che vanno in ufficio, studenti e insegnanti che devono raggiungere le scuole del centro o di Roma nord e soprattutto operai di ogni nazionalità che vanno a lavorare in cantiere e che, di solito, sono in ritardo, terrorizzati perché il loro principale potrebbe licenziarli in tronco, lasciandoli in mutande.

Molte volte (come d’altronde accade un po’ su tutti i mezzi) sul 628 ognuno se ne sta solo sul cuor della terra, accoccolato sul proprio sedile, e aspetta che sia subito sera (cit!).

A volte, però, accade qualcosa che fa cadere di colpo ogni barriera di razza, di ceto e di rodimento di culo mattutino; qualcosa che riesce a trasformare l’equipaggio assonnato e asociale in una compagine compatta di compari per la vita.

Dopo dieci minuti, il 628 ferma a piazza Epiro.
E non riparte più.

Sul serio: si pianta, immobile, e nessuno capisce perché, visto che il motore è ancora acceso.
Passato il primo momento di indifferenza, in cui lo stordimento mattutino impedisce di rilevare la deviazione degli eventi dalla norma, i passeggeri iniziano uno ad uno a alzare la testa e a chiedersi: “Sentiamo, per quale cazzo di motivo oggi farò tardi al lavoro? Eh? Si può sapere?”.

Io mi preoccupo di arrivare tardi alla riunione di redazione, i ministeriali di come timbrare il cartellino, gli studenti di cosa raccontare alla prof. della prima ora. Gli operai, invece, non è che si preoccupino: già si immaginano in mezzo a una strada a vivere di stenti.

Prima che si scateni il panico, però, c’è sempre un momento di stasi in cui ognuno, mentalmente, inizia a fare i calcoli di quanto tempo stia perdendo, confidando segretamente in un improbabile deus ex machina che spunti fuori da sotto ai sampietrini a risolvere la situazione.
Naturalmente, però, anche questa volta, col cazzo che arriva il deus ex machina.

Arrivano solo clacson impazziti di macchine ferme dietro a noi, improperi da parte dei pedoni che non riescono a passare e le madonne dell’autista che forse, in questo momento, è l’unico che ha capito cosa accidenti stia succedendo.

Finalmente, un signore seduto vicino alla porta anteriore ha deciso di emergere dal torpore: si alza e con decisione inizia a parlare con l’autista per capire il da farsi.
Hanno l’aria di due che sanno il fatto loro, di due che ora si rimboccheranno le maniche e risolveranno il problema, di due che non vogliono essere disturbati perché “state tranquilli, ci pensiamo noi”.

E proprio per questo motivo, non c’è una persona a bordo che abbia intenzione di fidarsi di quei due. Iniziamo tutti ad alzarci, a guardare fuori e a commentare con aria sdegnata che:
“Ma ti pare che questo doveva parcheggiare in curva sapendo che lì poi l’autobus non ha spazio per passare?”
E poi:
“Ma dove cazzo vai a spasso, sapendo come hai lasciato la macchina?”

Nel giro di pochi istanti, si crea il classico consiglio di guerra in cui tutti recriminiamo, nell’ordine: contro l’inciviltà della gente, contro quelli che non sanno guidare, contro il governo ladro e anche contro la mezza stagione che ormai non c’è più.

Ovviamente, a parte l’autista che ha preso a suonare il clacson e a smadonnare come se non ci fosse un domani, nessuno sembra avere idee geniali per sbloccare la situazione.
E soprattutto, nessuno sembra aver notato lo strano fermento che agita gli operai extracomunitari seduti in coda.

Parlano in varie lingue (a occhio si direbbe un misto di Africa, Centro America e Sud-Est asiatico), mimano tra loro un’azione e poi si avviano con passo deciso verso la porta dell’autobus. Li guardiamo tutti con aria perplessa, ma con la contemporanea speranza che il loro intervento – qualunque esso sia, foss’anche una rissa con lo sciagurato proprietario del veicolo – possa rivelarsi più risolutivo del clacson del conducente.


Diamo i numeri!


Corriamo tutti al finestrino più vicino al luogo del delitto per capire cosa stia per accadere. E – forse ancora non ce ne rendiamo conto – quello che vediamo non ce lo dimenticheremo mai.

La brigata extracomunitaria si avvia di gran carriera verso una Fiat 500 degli anni ‘70 che con il suo minuscolo culetto rotondo parcheggiato male osa impedire il passaggio del colosso a tre cifre.
Osserviamo trepidanti i quattro energumeni esotici piazzarsi due davanti e due di dietro, afferrare i parafango dell’adorabile cinquino e all’un-dos-tres sollevarlo di peso fino a lasciarlo cadere alcuni metri più in là, sul marciapiede.

Potenza del terrore di rimanere disoccupati.

I quattro si guardano, sudati e ansimanti ma fieri, e quando risalgono a bordo noi applaudiamo, esultiamo entusiasti: “Daje che pure stavolta nun te licenziano!” grida qualcuno.

Insomma, è una standing ovation che coinvolge tutto l’equipaggio tranne l’autista e il suo compare che, fosse stato per loro, stavano ancora attaccati al clacson e noi attaccati al cazzo.

Mentre gli applausi e le grida di giubilo ancora risuonano per tutta la vettura, il 628 torna a rombare fiero, direzione piazza Venezia.

Anche questa mattina, sembra, arriveremo tutti dove dobbiamo arrivare. Anche oggi un autista dell’ATAC ha perso una buona occasione per tacere. Anche oggi un gruppo di operai stranieri non ha perso il lavoro. E mentre in lontananza vedo arrivare un omino trafelato che proprio non capisce perché la sua 500 sia parcheggiata in mezzo al marciapiede, penso che domani ci ritroveremo tutti qui, stesso posto, stessa ora. Ma la standing ovation per quei quattro ragazzi non sarà ancora finita.

Forse solo per un giorno o due, ma intanto… buttali via.