Ciampino Peaks

Per una volta che non devo lavorare, decido di accompagnare una mia amica di Ciampino a fare delle commissioni burocratiche nella segreteria della sua università, Tor Vergata.

Wow! Zona esotica, finalmente! mi dico mentre mi preparo per uscire. Scoprirò panorami diversi dal grigiore della tratta Furio Camillo-Ottaviano!

(Il problema, amici miei, è che io parlo. Perché se stessi zitta, le cose andrebbero diversamente. Ne sono sicura.)

Vorrei poter descrivere con la solita dovizia di particolari l’itinerario che compiamo, ma da Ciampino a Tor Vergata tutto quello che vedo è nuovo per me: grandi distese di verde, viali alberati, rotonde ordinate e silenziose che si susseguono tra schiere di casette, talmente uguali l’una all’altra che sembrano il villaggio di Edward Mani di Forbice.

È tutto così diverso dalle gallerie sotterranee che collegano l’Appio Latino a Prati… Sono quasi emozionata!

Sulla segnaletica stradale leggo nomi nuovi: viale Kennedy, via dei Laghi, Grottaferrata, Marino… Presa dall’eccitazione, per un attimo quasi arrivo a pensare che Lepanto, Repubblica e Ponte lungo siano incubi di una vita passata.

Ma, ripeto, è solo un attimo.

Al termine del giro in facoltà, la mia amica e io decidiamo di tornare a Ciampino per un meritato aperitivo. E per farlo prendiamo un autobus della linea privata addetta al servizio locale.

Una linea privata… Doppio wow! 

Sto quasi per concedermi il lusso di pensare che, lontana dai disagi del trasporto pubblico, potrei compiere il viaggio in autobus più indimenticabile della mia vita.

Qualcosa, però, blocca il mio sogno proibito sul nascere. Anzi, qualcuno.

Fermo davanti al bus, c’è un uomo.
Si è piazzato a un metro di distanza dalla nostra vettura, è immobile e ci guarda con espressione indecifrabile. Al momento, però, sembriamo essercene accorte solo la mia amica e io.

A guardarlo bene, il tipo ha l’espressione minacciosa e inquietante di uno qualsiasi dei personaggi cattivi di Twin Peaks. Ma non saprei dire perché.

Così come non saprei dire perché nessuno sembra accorgersi di questa scomoda presenza: sono tutti intenti o a leggere un libro, a sonnecchiare, a parlare al telefono… Come l’autista, per esempio, che se ne sta seduto nella sua postazione a parlare da dieci minuti con la sua fidanzata come se nulla fosse.

Lo guarda, eh… Perché lo vedo da qua che lo guarda. Ma mica fa niente. (Si vede che quello che gli sta dicendo la sua fidanzata è molto più interessante di un uomo inspiegabilmente fermo davanti alla sua vettura.) 

Perché? Qual è la spiegazione all’inquietante mistero?

Prima che il tutto prenda davvero la piega di un film di David Lynch – e prima che il ritardo accumulato in partenza da questa corsa superi il quarto d’ora – la mia amica decide di disturbare la conversazione dell’autista.

“Mi scusi, ma non partiamo?”
“Eh no, fija mia. Come famo? Che non lo vedi?”

(Ok, dunque l’uomo immobile davanti al bus esiste e lo vedono anche altre persone. È già una buona notizia.)

“Ma non possiamo dirgli qualcosa? Non si può spostare?”
“Eh no, bella…”. L’autista guarda la mia amica come se lui fosse il depositario della saggezza dell’universo mondo e lei Cappuccetto Rosso alla prima pagina della favola. “E che non lo sai? Quando quello si mette là, mica lo sposti…”
“Ah no?”
“No.”

(Torna ad aleggiare l’incubo di David Lynch, ma ditemi se sono la sola a percepirlo.)

“E cosa si fa in questi casi?”
“Due cose.”
“Ah, bene.”
“O aspetti che si leva, o scendi. Ecco che fai.”

La volontà di spaccare la faccia a qualcuno riluce forte e chiara negli occhi della mia amica, ma siccome è una fanciulla a modino, si trattiene. E io capisco che una volta a Ciampino – se mai ci torneremo – sarà mio compito offrirle uno spritz doppio.

Questo, però, al momento è un problema secondario: dobbiamo risolvere l’impasse prima che faccia notte e soprattutto prima che io inizi a sentire la saudade brasiliana per Furio Camillo e Ottaviano.

Ci guardiamo intorno e notiamo che tutte quelle persone, che solo poco fa erano assopite nel loro torpore autistico, stanno iniziando a scendere dal bus. Non c’è stata una causa scatenante, l’autista non ha dato comunicazioni ufficiali né tantomeno l’uomo si è mosso dalla sua posizione.
Loro, però, all’improvviso hanno iniziato a scendere.

(David Lynch, dove sei? Sono sicura che tu sapresti spiegarmi il perché di tutto questo… Anche se il tipo non è un nano.)

Guardiamo l’autista per l’ultima volta, con l’irriducibile speranza che lui possa cambiare le cose.
“Te l’ho detto, fija mia. O si leva lui, o scendi tu.”

E dato che lui non si è mosso neanche di un millimetro…

La mia amica e io prendiamo le nostre cose e scendiamo. Ci mettiamo un po’ a capire quale autobus possiamo prendere in alternativa, ma alla fine – con l’aiuto delle tabelle della stazione, di internet e di un paio di inservienti che passavano di là – riusciamo a individuare la nostra vettura.

Nel salire a bordo, però, qualcosa ci blocca di nuovo. Seduto accanto al conducente, c’è il tipo di prima.
Paura.
Panico.
Giramento di coglioni.
Forte sensazione di presa per il culo.

Ora siamo noi a rimanere pietrificate, lì davanti, a un metro di distanza dall’autobus pieno di passeggeri e in procinto di partire.

E a giudicare dal nostro stato di shock, stavolta tocca a loro: tocca che se lèvano, perché se aspettano che scennemo noi, stanno freschi.

(David Lynch, a te la linea)

 

(Tratto da una storia realmente accaduta a Kristina L., lettrice di “Giulia sotto la metro”)