Belfagor a quattro ruote

Mattinata lavorativa come tante, per me. Non è così, invece, per la ragazza che in piedi accanto a me aspetta l’87 mentre chiacchiera al telefono. Silvia, dice di chiamarsi.

Siamo in pochi alla fermata, quindi se sento tutto quello che racconta alla sua amica direi che non è certo colpa della mia tendenza a origliare (…per scrivere storie, naturalmente).

A quanto dice, Silvia deve fare con una certa urgenza delle commissioni in centro e sta aspettando l’87 per arrivare a San Giovanni, dove poi prenderà la metro A.

Sticazzi, direte voi.

E invece no, uomini di poca fede! Il bello arriva proprio adesso.

Perché davanti a noi passeggeri in attesa, in effetti, c’è un autobus in rampa di lancio, con la porta centrale aperta, ma inspiegabilmente con il motore spento. Situazione tetra e a dir poco indecifrabile.

Attendiamo. Attendiamo un bel po’, in realtà. Qualcuno fischietta, qualcuno passeggia, qualcuno batte nervosamente il piede, frustrato dall’immobilità della scena.

Dopo diversi minuti appare un tizio agghindato da dipendente ATAC eppure privo del savoir faire dell’autista.

“Oh!”, esclama Silvia, che ormai non è più al telefono. “Ecco il conducente!”

La osservo, con un misto di ammirazione e disincanto, mentre si avvicina al nuovo arrivato e timidamente lo apostrofa: “Chiedo scusa, signore… ma questo autobus non parte?”
“No, signorì. Nun parte più, nun se move.”
“Ah…” fa lei, quasi contenta di aver trovato una ragione – per quanto negativa – all’impasse in cui ci troviamo. “Quindi è rotto?”

In totale contrasto con la pacata educazione che la ragazza ha utilizzato nel rivolgersi a lui, il tipo risponde urlando e gesticolando come un forsennato:
“No, signorì, me so’ rotto io! Vedo diavoli, diavoli ovunque!”
“Prego?”

Vedo Silvia in difficoltà e onestamente non la biasimo.

“Eh. Lei non li vede signorì?”

Lei, ve lo giuro, ci prova anche a mantenere un atteggiamento neutro e rispettosonei confronti della sedicente autorità tranviaria: “Ehm… no. Veramente, io non vedo nulla.”

L’autista, però, è perentorio: “Per ora, signorì… per ora. Ma stia tranquilla che arriveranno pure da lei!”

Silenzio.

Lui guarda lei. Lei guarda lui. E io guardo tutti e due, curiosa di sapere come finirà la faccenda. Tutto ciò che il siparietto mi regala è però un laconico: “Tutti in carrozza, signori! Tra dieci minuti si parte!”

Detto ciò, il tipo scompare all’interno dell’autobus satanico. Iniziamo a sentire strani suoni dal motore, sì, ma indubbiamente la vettura non si accende.

Silvia mi guarda con aria sperduta e mi chiede: “Ma dobbiamo salire lì dentro?”
E io: “Credo di sì.”
E lei: “Ma chi guida? Lui?”
E io: “Se ci dice bene…”
E lei: “E se ci dice male?”
E io: “Il demonio in persona, temo!”

Mo’ decidete un po’ voi: sarà per il tipo dei diavoli, sarà perché io ho lo spirito di patata, sarà perché a volte una parola è troppa e due so’ poche… fatto sta che Silvia ha deciso che a San Giovanni ce poteva arriva’ pure a piedi.

(Tratto da una storia realmente accaduta a Silvia V., lettrice di “Giulia sotto la metro”)