Il ruminante e la panzerotta

Ok, andiamo a lavorare. Salgo a Furio Camillo diretta a Lepanto come al solito, ma a variare il monotono tran tran mattutino arriva il provvidenziale incontro a bordo con il mio amico Adriano.

Scende a Lepanto anche lui, ma – come me – per raggiungere la sua sede di lavoro deve compiere un bel tratto a piedi. Per carità, una passeggiata è sempre una salutare occasione per prendersi cura del proprio corpo, ci mancherebbe. Però se fuori ci sono dei nuvoloni talmente minacciosi che come minimo ti aspetti il Ciclone Mariuccia e tu non hai manco l’ombrello, quella medesima passeggiata si trasforma facilmente nell’avvento di una broncopolmonite.

Dato che dal punto di vista meteorologico questa è proprio una di quelle giornate, Adriano e io iniziamo in silenzio a fare la danza della pioggia al contrario. Ok, rischiamo di somigliare idealmente a Michael Jackson (buonanima!) quando faceva il moonwalker, ma se funziona… chi siete voi per criticarci, eh?

All’altezza di San Giovanni le due persone sedute di fronte a noi scendono, lasciandoci l’opportunità di riposare le nostre (già) stanche membra.

(Provate a dire che l’hanno fatto per non vedere più la danza della pioggia al contrario e vi mostrerò tutto il mio disappunto verbale. Primo, perché ovviamente era metaforica. Secondo, perché se fosse stata reale sarebbe stata bellissima e voi non avete idea di quanto. Ecco.)

Adriano e io ci sediamo.
“Siamo stati fortunati, eh?”, commenta lui.
“Lo saremo davvero se non piove!” Sono sempre un po’ diffidente io, in termini di fortuna. Ho avuto una vita difficile.
“Hai ragione, ma pensaci un attimo. Quando riesci a trovare un posto a sedere in metro, la giornata inizia in maniera completamente favorevole.”
“Addirittura?” Non voglio sembrare scettica, ma sinceramente interessata. (Spero di esserci riuscita.)
“Ma certo! Se riesci a sederti, rilassi i muscoli, accendi l’iPod, apri un libro e per mezzora non ci sei per niente e per nessuno!”
“In effetti, non hai tutti i torti…” Il punto di vista di Adriano potrebbe quasi scardinare il mio sempiterno livore nei confronti del trasporto pubblico su rotaie.
“Lo so! È una sensazione magnifica, pari solo a quella che ti dà quel quarto d’ora sulla tazza del gabinetto appena sveglio…” (Lo so, lo ha detto davvero.)
“Prego?!”
“Eh, sì. Me li ricordo come se fosse un sogno quei quindici minuti di pace! Solo che poi sono andato a vivere con mia nonna di novant’anni e abbiamo un solo bagno a disposizione, quindi… ciaone!”

Per quanto Adriano e io ci conosciamo ormai da un bel po’ di tempo e tra noi ci sia una discreta confidenza, per forza di cose l’aneddoto intestinale crea tra di noi un silenzio imbarazzato.

A colmarlo, pochi minuti dopo arriva un rumore infernale, spaventoso, tremendo. Un suono che evoca prepotentemente l’odore acre della savana, l’immagine maestosa di una mandria di gnu in piena corsa, il ruggito del leone che si avventa sulla sua inconsapevole preda.

A produrlo è un damerino in giacca, cravatta e ventiquattrore lungo il fianco, che è in piedi davanti a noi. Probabilmente l’elegante disinvoltura del suo portamento trae in inganno gli astanti e lui medesimo. Con gli auricolari nelle orecchie, forse, non si rende conto di ciò che sta facendo. Va bene tutto, ma il punto è che uno proprio non riesce a levarselo dalla testa questo rumore che lui fa masticando chewing gum in modo eclatante.

(Ma che dico eclatante? Eccessivo. Ma che dico eccessivo? Invasiv… No, niente: l’unico termine che mi sembra adeguato è boombastic. Spero di aver reso l’idea.)

Vedo Adriano infastidirsi notevolmente, ma con quell’aria frustrata tipica di chi non ci può fare nulla. Lo capisco, anche io vorrei tanto tirare un uppercut al tipo, con la speranza di vedergli partire verso l’alto mascella, mandibola e chewing gum annesso. Da un lato, però, non si può perché pare brutto, dall’altro non vale la pena perché nel momento stesso in cui passiamo per Termini ci rendiamo conto che il vero spettacolo sta per iniziare solo adesso.

All’apertura delle porte, il vagone viene invaso dalla fiumana di persone che si vanno a insardinare negli anfratti ancora liberi. Precisamente davanti a noi (e dunque molto, molto vicino al ruminante in carriera) si piazza una signora-panzerotto di una sessantina d’anni, con un capellino a coppola tutto tempestato di stelline e paillette che puzza di guai lontano un miglio.
Al primo scossone della metro, la ventiquattrore del damerino sbatte lievemente contro la panzerotta di cui sopra, che non la prende molto bene.

“Ahia!”, urla. “Attento, mi fai del male!”
(…del male? Ma come parli? Decido di non dire nulla solo perché il cazziatone ha fatto cessare lo sgradevole rumore masticatorio.)

Il ruminante si toglie gli auricolari e fissa per un lungo istante la signora con fare assente: “Prego?”.

Per tutta risposta, parte una filippica (che sulla carta appare infinita e che presenta un parametro di decibel decisamente fuori dalla grazia di Dio) per la quale i giovani sono tutti dei maleducati, e come pensiamo noi di poter andare avanti se nessuno rispetta più il prossimo, e comunque le persone anziane hanno dei disagi fisici che vanno rispettati, e tanto per cambiare mai qualcuno che chiedesse scusa, e poi tanto quand…

“Aho! E mo’ basta! Hai rotto i coglioni, polemica del cazzo!”

Adriano e io, che fino a quel momento abbiamo sghignazzato sotto i baffi cercando il più possibile di guardare altrove, alziamo istantaneamente lo sguardo e sbarriamo gli occhi con una punta di terrore.

Ecco che ritorna quel silenzio inquietante, rotto solo dal suono della voce registrata: “Barberini, uscita lato… destro…”.
Osserviamo la panzerotta, poi il ruminante, poi di nuovo la panzerotta.

“Eh, certo”, dice lei, badando bene a fare una pausa assai teatrale. “Poi non ci lamentiamo se da epiteti come questi si passa allo stupro.” Da questa uscita al collasso isterico per troppe risate il passo sarebbe davvero breve, ma comunque: “Giovanotto, per la cronaca, io sono una signora”.
“No, bella mia. Tu sei malata, ecco che sei.”

Quando le porte si aprono sulla banchina di Barberini il ruminante prende ed esce, lasciando la signora a balbettare sillabe colme di stizza, ma prive di significato.
Ammiratissimi, Adriano e io osserviamo il tipo allontanarsi. La morale della favola è che quel poveretto, la pazza isterica non l’aveva neanche sfiorata… quindi per noi l’incidente della gomma americana è ormai acqua passata. Su tutta la linea.

(Questo racconto è stato scritto a quattro mani con Adriano T., lettore di “Giulia sotto la metro”.)