alien and the city

Alien and the city

La metro ha avuto malfunzionamenti per tutto il giorno. Eppure – tanto per cambiare – io non lo so perché, nonostante siano tipo tre anni che vado a lavorare con i mezzi, ancora ragiono come se ci andassi in macchina, non mi informo su quello che succede e poi mi meraviglio pure se mi capitano certe cose. Vabbè.

Alle ore 19 in punto, esco dall’ufficio con la beata convinzione che dopo trenta minuti esatti mi ritroverò comodamente seduta ad un tavolino del bar preferito da me e dalle mie amiche per giocare a Sex and the city – versione dimessa, con uno spritz in mano.

(Ovviamente, è dallo spritz che si capisce che è dimessa: se fossimo veramente Carrie & Friends prenderemmo un Cosmopolitan ma invece siamo noi e quindi daje de spritz.)

Tanto… mi chiedo tra me e me in un’ingenua conversazione mentale… che strada devo fare? Prendo la metro a Lepanto, scendo a Termini, prendo la B, arrivo a Circo Massimo e sono arrivata, no?
E che ce vo’? Tra mezz’ora sto là.

(Ahahaha!)

Ciecamente convinta del mio ragionamento, mi incammino verso la metro carica di buone intenzioni e guidata dalla scintillante luce arancione di uno spritz all’orizzonte.

(Direi pure dalle luci dello skyline della New York del telefilm, ma poi mi rendo conto di come accidenti sono vestita e mollo istantaneamente l’infantile tentativo di metafora: c’è chi può e chi non puó, basta saperlo.)

Mi fermo sulla banchina, attendo i tre minuti diligentemente annunciati dal tabellone elettronico, vedo arrivare un vagone carico come un carro bestiame prima della mattanza, continuo a non pormi domande e salgo a bordo.

(…dicevamo prima di Sex and the city? Quelle quattro non andrebbero mai in metro, dunque la mia battaglia rimane persa in partenza…)

Tutto sembra procedere per il meglio, mi ritaglio un angolino tra un corrimano e una porta e decido di rilassarmi facendo una telefonata.
Io parlo… La metro va… Io continuo a parlare… La metro continua ad andare…
e quando arriva a Termini, come di consueto, inizio a studiare la situazione per capire chi si alzerà per scendere. Individuo una signora accanto a me che inizia a radunare le sue cose e le lascio lo spazio per passare con la finta cortesia di chi sa benissimo che quello in realtà non è un atteggiamento gentile, ma l’inculata che infliggo a chi sperava invano di sedersi al posto suo. Mentre continuo a parlare al telefono, mi avvito alla signora fino a riuscire a poggiare le mie terga sul sedile non appena lei solleva le sue e, quando finalmente la metro riparte, tiro un breve sospiro di sollievo.

Tra pochi minuti saremo a Vittorio Emanuele… Poco dopo a Re di Roma… E infine…

“Cazzoooo!”
“Che c’è?” Dice la voce all’altro capo del telefono.
“A Termini dovevo scendere, non mettermi a sedere! Vaffanculo!”

(Già vedo Darwin prendere sdegnosamente le distanze da me e dalla mia maledetta forza dell’abitudine Ottavianocentrica.)

Realizzare la grande cazzata appena commessa e alzarmi di corsa per scendere non risolverà i miei problemi, anzi. Non posso ancora saperlo, ma – prendendo la metro che da Vittorio Emanuele va nella direzione opposta – sto per aprire le porte dell’ascensore per l’inferno… in discesa, direbbe un fantascientifico marine di mia conoscenza.

A dare il via al mio viaggio a ritroso verso Termini, ci metto solo pochi minuti; lo stesso non si può dire della metro perché dopo la chiusura delle porte il vagone non si muove. Rimane fermo, immobile, diversi metri sotto Piazza Vittorio.

Io – povera scimunita! – penso con ottimismo che di lì a poco tutto si sistemerà e che nulla si potrà frapporre tra me e l’aperitivo con le mie amiche; quelli intorno a me, invece, già smadonnano allegramente tutti in coro. 
Ed è grazie ai loro improperi che finalmente scopro – sono l’unica romana a non saperlo ancora, temo – che da questa mattina la metro porta dei grossi, grossi ritardi per problemi tecnici.

Naturalmente, ora che siamo a fine giornata la situazione sotterranea è totalmente fuori controllo e il fatto che io mi ritrovi intrappolata in un vagone stracolmo e immobile sotto Piazza Vittorio ne è la prova lampante. Nell’attesa di capire come uscirne viva, inizio a guardarmi intorno, a scrutare il coacervo di facce meticce e di razze nuove di una bruttezza un po’ disarmante, che mi mette subito a disagio e accende in fretta la mia voglia di fuggire dal vagone.

(Cazzo… vengono fuori dalle fottute pareti, direbbe Hudson, il medesimo marine di cui sopra in “Aliens – scontro finale”. E non è neanche un riferimento inattuale, visto che oggi tutti i giornali strombazzavano l’incredibile scoperta di acqua allo stato liquido su Marte.)

Alla mia destra si srotola una moltitudine di indiani, arabi e africani che stanno evidentemente tornando dal lavoro.
“Ciao fratello, tutto bene oggi?”
“Che dice principale? Incazzato, principale?”

Io sono felice per loro perché lavorano, a buon bisogno guadagnano pure più di me e anche giustamente, perché loro fanno lavori utili mentre io sono da anni nel campo del totally superfluous. Se da un lato, però, il loro duro lavoro manda avanti la società in quei settori che gli italiani non si degnano più prendere in considerazione, dall’altro crea una situazione difficile per me da gestire: puzzano… mortacci loro, se puzzano.

Volgo gli occhi altrove, nell’ingenuo tentativo di dare sollievo alle mie narici, ma mi imbatto in un’ugualmente fitta moltitudine di frati e suore. Giuro. A far da contraltare alla compagine indo-islamica ci sono tantissimi accoliti di Santa Madre Chiesa.

Ora, mi rendo conto che non è necessariamente il caso di tornare con la mente a quegli innocenti gesti apotropaici a cui ricorrevamo da ragazzi quando, al passaggio di un’ancella di nostro signore, ci percuotevamo con forza in mezzo alle spalle al grido di: “Sóra tuaaa!”

(Anche perché ho scoperto che in Puglia, ad esempio, fanno la stessa cosa con i marinai. Paese che vai, usanza che trovi. Credo dipenda dalla percentuale dei singoli elementi sul territorio, visto che in Puglia c’è il mare e a Roma il Vaticano.)

Che cavolo, però, questi me le vogliono strappare dalle mani: si sono messi a pregare!
E mica pregano tanto per pregare, no. Pregano perché la nostra metro finalmente riparta.
Dicono un’Ave Maria e poi guardano le porte del vagone: nulla si apre, nulla si muove, loro dicono in coro “Ora pro nobis” e ripartono all’attacco.

Schiacciata tra il fetore mediorientale e la litania metropolitana, finisco di dimenticare una buona volta Carrie, Miranda, Samantha e Charlotte. D’altronde, non ho mai capito a chi assomigliassi realmente di loro quattro… se non a Carrie perché scrivo. Ma adesso, onestamente, a che cazzo mi serve che so scrivere? Adesso mi servirebbe un elicottero (e loro quattro ce l’avrebbero… ne sono sicura), una bomba atomica, la talpa trivellatrice della banda bassotti…

Insomma, per uscire da qui devo fare quello che devo fare…e devo farlo rrrapido.
Cazzo: altro che Carrie.  Ecco chi sono! Io sono Vasquez del medesimo Alien di cui parlavo poco fa, sono pure bilingue in spagnolo… sono perfetta!

Per uscire da questo groviglio di alieni catto-islamici devo imbracciare la mitragliatrice e iniziare a correre fuori da qui, anche perché ormai è quasi un quarto d’ora che siamo bloccati qua dentro e per me il miraggio dello spritz si è fatto imprescindibile quanto la necessità di portare in salvo la Nostromo.
Quindi mi alzo di scatto dal sedile, mi faccio largo tra la folla e vado in cerca di una porta aperta, con la seguente dicitura tatuata in fronte: “Io solo quiero saber una cosa…donde estaaa?”

Alla fine la trovo, la cazzo di porta aperta e procedo spedita, stando ben attenta a evitare nidi di alieni sparsi qua e là (ché se poi si riproducono le suore e i bangladeshini, Dio solo lo sa che accidenti di xenomorfo viene fuori… altro che Darwin); inizio a correre su per la scala mobile, mentre ormai la litania dei pater noster a San Cristoforo protettore dei trasporti e anche l’afrore della misteriosa jungla nera di fanno ormai un lontano ricordo.

Sbuco in superficie da un’uscita laterale di Piazza della Repubblica e molto probabilmente – anche a causa di un voluminoso pacco regalo che mi trascino dietro da ora di pranzo – più che una fashion victim newyorchese o una marine astro-ispanica, sembro semplicemente una scappata di casa.

Ma io non mi fermo, sa’? Gli alieni li ho seminati, mo’ voglio lo spritz con le amichette mie.
Dice, e vattelo a pija’ sto spritz, no? E vacce te, se ce riesci… hai presente quanto siano collegati male Piazza Vittorio e il Circo Massimo? Ecco.

Io ci provo comunque, ma nel frattempo avviso le mie amiche: “Metro infestata. Stop. Sono ferma a piazza Vittorio. Stop. Sono in ritardissimo, ma cerco un taxi e vengo. Stop.”

Quella che tra le mie amiche è guida turistica e dunque provetta conoscitrice della marmaglia urbana risponde subito: “No! Taxi no! Ti chiede venti euro!”
Venti che? Ma tu ti buchi! Io sono passata nel giro di cinque minuti da Carrie Bradshaw a Vasquez di Alien, ho sconfitto gli alieni multirazziali e alfin son giunta a riveder le stelle: mi sembra evidente con quei venti euro ci devo pagare tre spritz, col cazzo che li mollo al tassinaro!

(Ok, su questo punto direi che mi sono espressa chiaramente. Mo’ tocca solo trovare il taxi. In mezzo a Piazza Vittorio.)

Intasco il cellulare, torno a imbracciare la mitragliatrice, mi piazzo in mezzo alla piazza – un po’ anche a rischio della mia stessa esistenza, ma ‘sti cazzi… io qua non ci resto –  e alla fine accade.

Ho una botta di culo.  Pura, semplice e cristallina.

Un taxi si ferma davanti a me, due giapponesi scendono e non fanno neanche in tempo a prendere le loro valigie dal bagliaio che io già sono seduta dentro.
Il tassinaro si gira e mi vede quando ormai è troppo tardi per farmi uscire.

“Salve!” Gli faccio. “Mi porta al Circo Massimo per favore?”
(Eh già, hai appena perso i soldi della tua prossima chiamata… ma io ho uno spritz da prendere. Lo siento, amigo. Asi es la vida.)

Dieci minuti e soli dieci euro dopo, il tassinaro mi sta per depositare davanti al bar dove le mie amiche mi stanno aspettando – che le possino – beatamente già con lo spritz in mano.

“Eccoci. Grazie mille.”
“Ah scendi qua? Ma che devi annà a lavorà?”
“Prego?”

“No, dico…fai la cameriera qui?”

Ecco. Addio Carrie, addio Vasquez, addio ricerca del mio alter ego. Chissà se il sorriso con cui scendo dal taxi nasconde bene la delusione di essermi appena scoperta Michelle Pfeiffer in Paura d’amare.

…Vabbè, basta che alla fine non arrivi Al Pacino galeotto a rubarmi lo spritz.