Una faccenda che puzza

Ne abbiamo parlato già una volta, l’esimia blogger Rossella – oltre a essere una mia collega per molti aspetti – è anche una fedele passeggera del bus 64.

Ora, siccome io sono invece più una devota della metro A, ho deciso di accompagnarla in un giro a bordo dell’imprevedibile mezzo per godermi in diretta insieme a lei qualche scorcio di vita metropolitana.
Tanto, male che vada, alla fine c’è sempre uno spritz che ci attende.
O magar un kir royal, nel remoto caso in cui per una volta mi andasse di bere qualcosa di diverso.

Rossella e io ci troviamo al capolinea del 64, saliamo a bordo, prendiamo posto e cominciamo a guardarci intorno con nonchalance, ma anche con il cellulare e il tablet pronti all’uso. Hai visto mai che qualcosa debba succedere davvero…

E infatti.
A bordo saremo… quanti?, una decina di passeggeri al massimo, dunque ci mettiamo poco a renderci tutti conto che c’è qualcosa non va. Sarebbe inutile per chiunque provare a far finta di niente: questo autobus puzza. Ma puzza in una maniera che non saprei come descrivere senza tirare in ballo carogne di animali sbranati e lasciati a decomporsi in mezzo alla savana il giorno di ferragosto.

(Forse c’è pure il pollo coi peperoni di mia nonna nella scena, ma non ne sono sicura. Da qua non si vede bene.)

In casi come questo, oltre a tenere un certo decoro e a sperare di morire presto per non soffrire oltre, si tenta subito di individuare la fonte del pessimo odore e poi di capire come bonificare il soggetto.

Il primo a riuscire nell’intento è l’autista che, oltre a essere evidentemente un uomo di mondo che sa bene come vanno queste cose, si dimostra subito un’anima pia.
Guarda di sottecchi l’anziana senza tetto che siede a pochi passi da lui, in condizioni sufficientemente precarie da giustificare tutto l’olezzo di verbena che sta compromettendo le condizioni del veicolo.
La guarda, ma non le dice nulla. Forse è mosso a compassione, o forse la conosce già. Sta di fatto che finché la signora non si muove, non ci muoviamo neanche Rossella e io.

Più dell’odor, potè la curiosità (femmina e vagabonda) di sapere come va a finire questa faccenda che – come si suol dire in gergo poliziesco – puzza. E di grosso.

Mentre per sopravvivere decidiamo di aprire tutti i finestrini della vettura – perché se da un lato è vero che chi non risica non rosica, dall’altro è vero anche che prevenire è meglio che curare – vediamo salire a bordo (ben) due controllori.

Già di per sé l’evento ha del soprannaturale, perché in vita mia io non ho mai visto un controllore sull’autobus. Figuriamoci due.
La cosa ancora più soprannaturale è che, neanche cinque secondi dopo la loro entrata in scena, uno dei due acchiappa l’altro per la collottola e lo tira violentemente dietro di sé verso la porta centrale.

(Che bravi… Danno il buon esempio, seguendo in prima persona la regola che indica da dove si dovrebbe scendere! Quasi quasi, mi rimangio quello che ho detto poco fa sul loro assenteismo professionale…)

“Ehi! Lasciami!”, dice a voce alta la vittima di quel prepotente quanto improvviso trascinamento.
“Ma sei impazzito? Perché fai così?”
“Sbrigati a scendere!”, farfuglia l’altro a mezza bocca, ma pur sempre in maniera comprensibile. “C’è la pazza!”
“Cosa?!”
“Non la vedi? Sta laggiù, vicino al conducente!”

Il secondo controllore si volta verso la testa dell’autobus, vede la senzatetto e spalanca terrorizzato la bocca come fosse davanti alla scena clou dell’Esorcista.
Un attimo dopo, i due non ci sono più.

Erano entrati per controllare (così come il loro nome sembra suggerire), erano entrati per rendere questo veicolo un posto migliore, erano entrati per mostrare a tutti noi il discreto ma coinvolgente fascino della legalità.
Riscontrare la devianza, applicare la sanzione, ripristinare l’ordine: ecco cosa ci aspettavamo da loro. E invece li abbiamo visti cadere in preda alla paura, prendere la fuga, ritirarsi inermi davanti a una vecchietta di settantacinque anni (novantadue per la questura).

Sarebbe stata la prima a cui controllare la regolare obliterazione del biglietto – e lo sappiamo tutti – ma nessuno ora se la sente di commentare l’ovvio.
Prevalentemente perché il tanfo si è fatto talmente forte che, come dice il buon vecchio Ligabue, abbiam perso le parole.
La speranza diffusa è una sola: che non passi l’ISIS da queste parti. Perché loro sì che saprebbero intuire il potenziale della signora e ci metterebbero davvero poco a arruolarla come infiltrato.

E allora lo vedremmo davvero, chi era la pazza del 64.

(Questo racconto è stato scritto a quattro mani con Rossella D., lettrice di “Giulia sotto la metro”.)