Il grande sacco di Nonna Abelarda

Che io non passi volentieri per Termini è risaputo. E ciò che sto per raccontare – una buffa storia di qualche tempo fa – conferma per l’ennesima volta le innegabili ragioni della mia attitudine.

Trovandomi ad attraversare a piedi il piazzale della stazione con via Cavour alle spalle e l’ingresso della metro davanti, mi muovo guardinga e con circospezione, gli occhi costantemente rivolti al cielo.

Paura di un attacco aereo?, vi starete probabilmente domandando. No, manco per niente: paura degli storni e delle loro cagatine a tradimento che in genere vanno a cadere sui capelli appena lavati o sulla borsa appena comprata o sul vestito appena ritirato dalla tintoria (non che se la merdina dell’uccellino cadesse su un vestito non stirato o su un vecchio zaino sarei più felice, intendiamoci).

Mentre cammino sul lastricato, serpeggiando tra senzatetto, cumuli di carta straccia, turisti dall’aria sperduta e, per l’appunto, chiazze di escrementi di volatili migratori, mi rendo conto di una novità.

Non so da quando (perché – ve l’ho detto – io ’sto posto lo evito come la peste), ma qui sul piazzale sono comparsi parecchi secchioni di plastica trasparenti. Per carità, tracimano monnezza come se nessuno li svuotasse dal tramonto del secolo scorso, ma la luce del sole si riflette sul plexiglas producendo delle luminescenze futuristiche molto evocative.

(Quanto so’ poetica certe volte, eh? Mi stupisco da sola.)

Uno di questi secchioni si trova precisamente davanti all’ingresso della metro verso cui mi sto dirigendo, dunque non posso fare a meno di notare lo strano personaggio che vi si aggira nei pressi. È una signora anziana, coperta di stracci e ricurva su sé stessa, che bofonchia parole in lingue forse morte, forse mai nate. Si muove a zig zag con fare fin troppo agile per l’età (perlomeno quella che dimostra) e si ferma a esaminare con attenzione ogni singolo secchione trasparente che incontra sul suo cammino.

Nel giro di qualche minuto finiamo entrambe sulla cima delle scale che conducono al ventre della stazione ferroviaria capitolina: io sono ferma a cercare il mio abbonamento nel portafoglio, lei ferma davanti all’ennesimo secchione e anche lei sembra cercare qualcosa.

Per la precisione, seppur con qualche difficoltà, l’anziana signora sta cercando di sfilare dal secchione il grande sacco che contiene tutta la spazzatura all’interno e dopo qualche goffo tentativo – incredibile ma vero – ci riesce!

Si carica il sacco sulle spalle, lo trascina dietro di sé scendendo i primi gradini della scalinata, poi si ferma a valutare con aria assorta qualcosa che io non riesco a individuare, ma che lei trova decisamente di suo gradimento.

“Ecco qua!”, biascica con aria soddisfatta, poi si piega sulle gambe e frulla il sacco e tutto il suo contenuto lungo le scale.

(Neanche ve lo dico cosa ho visto uscire da quell’affare e andare a sparpagliarsi senza pietà sui gradini. Neanche ve lo dico.)

Mentre la vandala attempata si guarda intorno con aria soddisfatta, mi accorgo che nessuno ha reagito all’improvviso e imprevisto svarione. Hanno visto in molti, ma tutti si sono ben guardati dal dire o fare alcunché.

Confesso che l’istinto di fuggire a gambe levate lo sento forte e chiaro anche io, ma decido comunque di prodigarmi per la conservazione della specie.

Darwin sarebbe fiero di me, lo so, vedendomi chiudere il coperchio del secchione prima che Nonna Abelarda torni indietro per frullare a destra e a manca me e quei quattro rimasugli di spazzatura che giacciono sul fondo del bidone. Naturalmente, non saprei dire se dall’alto dei cieli il buon vecchio Charles riuscisse realmente a vedermi, ma che la tipa invece mi ha visto lo capisco in un attimo.

“Oh! Te! Ma che cazzo vuoi?”

Ci potrei anche provare a voltarmi indietro e a fingere di cercare con lo sguardo la persona con cui (forse) Nonna Abelarda sta parlando, ma dato che è fuori come un melone potrei sortire effetti imprevisti.

“Mi scusi, signora… dice a me?”
Tento la carta della gentilezza, hai visto mai funziona.

“Sì, e mo’ te ne accorgi.”
No, mi sa che non funziona.

“Oh! Gente! Vigili! Polizia! Guardieee!”
Minchia se strilla, Nonna Abelarda. E non so neanche come placarla, perché in effetti non capisco come possa per lei risultare tanto grave il fatto che io abbia chiuso il secchione con il coperchio.

“Guardieee! Portatela viaaa! Questa sta qui a rompere i coglioni alla genteee!”
(…ah, io?! E tu che rovesci i secchioni in giro per piazza dei Cinquecento, invece che fai? Volontariato alla FAO?)

“Signora, mi perdoni. Qual è il problema?”
Ritento con la carta della gentilezza, ma non perché spero funzioni. Semplicemente perché non so cos’altro fare.

“Qual è er probblema? Te vòi sapè qual è er probblema, eh? E te lo dico io, qual è. Aspettame ‘n’attimo qua, che mo’ torno e poi sì che so’ cazzi tua. Sta pezza de mmerda…”

Nonostante la finezza di declinare al femminile l’ultimo intestinale insulto sia per me un espediente degno di lode, non mi sembra saggio rimanere qui ad aspettare che la folle anziana torni per complimentarmi con lei.

Dunque, decido di correre verso i tornelli della metro. Certo, questo vuol dire non poter dare a voi lettori un finale alla storia… ma non temete, se la ribecco in giro, Nonna Abelarda, glielo chiedo senz’altro qual era er probblema.

…magari se lo ricorda e me lo dice pure, va’ a sapere.

(Tratto da una storia realmente accaduta a Carlo S., lettore di “Giulia sotto la metro”)