Ingegneri in Transilvania

8:30 del mattino. È la fine di una settimana entusiasmante ma dura. Anzi, facciamo pure di un mese.

Sto sonnecchiando su un sedile della metro, aspettando pazientemente di arrivare in redazione: non vorrei altro che rimanermene qui incosciente, inerme e sepolta dai sensi di colpa (perché lo so benissimo che ieri sera potevo andare a dormire prima, ma me ne sono sbattuta perché dovevo finire di vedere House of cards).

Qualche volta ci riesco: può capitare che chi è accanto a me vegeti esattamente nella mia stessa condizione e nessuno fa un fiato fino a fine corsa. Oggi, però, quello accanto a me chiacchiera. Provo a ignorarlo, provo a porgere l’altra guancia, provo a entrare spontaneamente in coma… ma niente, quello continua a parlare, e niente, per quanto il mio istinto di sopravvivenza sia forte, la mia curiosità lo è di più. Il sonno criogenico svanisce e mi metto ad ascoltare.

Capisco che i tipi accanto a me sono due colleghi di lavoro: alti, normovestiti, occhialuti e – da quello che dicono – impiegati nel campo dell’informatica. Uno dei due, il narratore, è reduce da una missione a Bucarest, in Romania; sembra stanco, ma soprattutto incredulo.

“Intanto devo ancora capire per quale motivo siamo arrivati a Bucarest all’una di notte… ma non c’era un volo prima? Forse l’azienda becca degli sconti se viaggiamo di notte?”
(Tesoro mio, non vorrei apparirti saccente, ma sulle abitudini di certi rumeni, sulla loro tendenza a dormire di giorno e a vivere di notte, girano strane voci da tempo immemore… Su un tale Jonathan Harker che è arrivato in Romania di notte per vendere una casa e poi gliene sono successe di tutti i colori ci hanno fatto libri e film, sono sicura che lo sappia anche tu. Magari chi ha prenotato i biglietti lo ha fatto per venire incontro alle abitudini locali. In quel caso, allora, un po’ di aglio in valigia non avrebbe guastato).

“Non puoi capire quando siamo arrivati…”, continua il tipo, allibito. “Notte fonda, umido, nebbia… e poi l’albergo stava in culonia, dall’altra parte della città!”
(E pure qua dico: tipico. Quelli che arrivano in Romania di notte difficilmente trovano un clima accogliente e quasi mai un alloggio nei pressi della civiltà conosciuta… Occhio agli slovacchi a cavallo, si tende a raccomandare in quei casi, ma forse sono io un po’ troppo paranoica. Attendo il seguito del racconto per capire meglio)

Pare che la comitiva di informatici dovesse partecipare a un meeting di lavoro internazionale, ma che – a differenza della compagine italiana – tutti gli altri partecipanti fossero alloggiati in centro. Pare che il giorno seguente, per raggiungere il punto di incontro, ci sia stata una mezza odissea, ma che alla fine di un lungo giro l’anfitrione rumeno abbia accolto il team italiano a braccia aperte. (Vedi che pensavo male? Vedi che già mi ero fatta un’idea sbagliata, basata su pregiudizi e troppi film? E dai!)

“Eh sì, pure se eravamo gli ultimi, Vlad non ha fatto una piega!”
(Come? Come hai detto?! E tu mi vorresti dire che sei arrivato di notte, in un posto in culo ai lupi, invitato da uno che si chiama Vlad e non ti sei fatto due domande? E che non ti sei insospettito perché questo Vlad appariva gioviale al primo incontro? Guarda, amico mio, non ti dico niente solo perché ti vedo vivo e vegeto qui davanti a me… ma in effetti potresti pure essere uno di quelli della nuova generazione, uno di quelli alla Twilight che scintillano alla luce del sole… per tua fortuna ora siamo sotto la metro e non posso verificare. Perciò, mi limito a sentire come finisce questa storia, ma tu ringrazia solo che sei un ingegnere informatico e non un avvocato immobiliarista, ché sennò già stavo col paletto di frassino.)

Stando al racconto, la giornata lavorativa si è svolta in tranquillità, così come pure la cena di chiusura dei lavori. Quando però si è fatta l’ora di tornare a casa, ovvero nel cuore di una notte senza luna, ecco riproporsi le situazioni anomale e a tratti inquietanti.

“Dovevamo fare 40 minuti di strada e non c’erano mezzi…” il nostro amico prosegue nella narrazione e io spero che finisca prima di arrivare a Ottaviano, perché non mi voglio perdere il finale. “Quindi abbiamo chiesto un taxi.”
“E l’avete trovato?” gli chiede l’amico che – a differenza mia – non sembra notare retroscena inquietanti in questa parabola mattutina.
“L’abbiamo chiesto al cameriere, che ci ha mandato dal proprietario del ristorante, che a sua volta ci ha portato da alcuni energumeni giganteschi e minacciosi sul retro del locale…”

(E poi dice che uno non deve fare attenzione agli slovacchi a cavallo… come se non sapessimo come vanno a finire certe cose, eh?)

“E voi che avete fatto?”
“Gli abbiamo dato l’indirizzo e siamo saliti in macchina.”
“Ma non avevate paura?”
“Avoja! Ma avevamo più paura a dirgli di no… Dovevi vede’ che stazza che avevano!”

(Su questo sono d’accordo, nel dubbio meglio non contraddire chi potrebbe condurti a un bel paio di canini affilati e assetati di sangue umano.)

La compagine italo-informatica consegna un biglietto con l’indirizzo dell’hotel all’energumeno alla guida e decide di affidarsi a quattro tomtom/navigatori/cellulari/dispositivi geolocalizzatori in bella mostra sul cruscotto della traballante Dacia Logan targata Bucarest. A sorpresa, tanto per sciogliere la tensione, si scopre che l’energumeno mastica un po’ di italiano e che ha voglia di fare conversazione.

“Beh, fico, no?” commenta l’ascoltatore diretto del racconto.
“Seh, ’sto cazzo!” risponde il sospetto vampirizzato. “Sapeva solo fare le domande, alle nostre risposte pronunciava solo monosillabi e quando noi non sapevamo più che altro dire la macchina risprofondava nel silenzio più inquietante…”

(Potevate cantargli Mamma Maria dei Ricchi e Poveri, ho sentito dire che da quelle parti è come calare una briscola a colpo sicuro… ma pazienza, sarà per un’altra volta. Se v’aregge a tornarci, si intende.)

A questo punto, la storia sfiora la tragedia: i navigatori non trovano la destinazione, l’energumeno al volante non conosce la via e va in difficoltà. Inizia a chiamare gli amici per chiedere informazioni, impreca in rumeno contro i malcapitati che non gliele sanno dare, all’equipaggio che chiede spiegazioni non accenna a dare risposte.

(Eccola là, è la fine. Sicuramente Vlad si starà infuriando perché il suo slovacco tarda a portare la cena a casa. Mò so’ cazzi, come dicono in Transilvania.)

Non si sa come, dopo numerosi quanto tesissimi istanti di preoccupazione e sospetto, l’oscura silhouette dell’albergo si profila all’orizzonte, i prodi ingegneri informatici scendono dalla macchina e non provano neppure a chiedersi perché l’energumeno li abbia depositati davanti all’ingresso secondario senza chiedere un soldo per la corsa.

Non avendo minimamente intuito la mia (visionaria, ve lo concedo, ma stando agli indizi alquanto probabile) interpretazione dei fatti, loro volevano solo andare a dormire. E mi pare sacrosanto.

D’altronde, chi sono io per spiegargli la verità, proprio ora che è tutto finito? Chi sono io per dire a questi baldi informatici che uno slovacco che porta la cena a Dracula in ritardo non può far altro che fuggire a gambe levate sperando di non essere beccato? Chi sono io per dirgli che hanno rischiato di trovarsi a interpretare il sequel di uno dei romanzi che sicuramente hanno divorato da ragazzi?

Nessuno.

Infatti mi faccio i cazzi miei e a Ottaviano scendo, affrettando il passo per non arrivare troppo tardi in redazione.