Panic in the streets of Rome

Mi permetto di tirare in causa uno dei pezzi più famosi degli Smiths, per concedermi una fuga dal sottosuolo e andare a vedere che accidenti combina il trasporto pubblico in superficie. Lo faccio, raccontandovi la faccenda a tinte fosche che è capitata alla mia amica Ale, una sera in cui girava in macchina per commissioni. Indosso, la prima tuta che era uscita dall’armadio; in borsa, niente telefono perché lo aveva lasciato a casa.

All’incrocio, il semaforo è rosso. Ale si ferma e attende pazientemente l’arrivo del verde… che, però, non arriva in maniera sufficientemente rapida. Dalla curva alla sua destra, infatti, arriva prima un bell’autobus formato famiglia che sbuca all’improvviso e le prende il cofano in pieno.

(…un autobus. Eh. Non vi dico il numero, perché non lo so. Ma poi capirete perché.)

Un istante dopo  aver realizzato di essere ancora viva, Ale scende dalla sua macchina e si avvia di corsa a a parlare con l’autista; è ben consapevole, alla luce degli ultimi accadimenti, che essere in tuta da ginnastica e senza telefono adesso risulta molto peggio di quanto sembrasse solo pochi minuti prima.

“Ma che sei impazzito…”

Inizia Ale, visibilmente agitata; ma non fa neanche in tempo ad aprire bocca che ci pensa lui a zittirla in quattro e quattr’otto.

“A regazzì, statte bona e famme er favore…” L’apostrofa lui con il classico aplomb che – un po’ per esposizione mediatica e un po’ per conoscenza del sottobosco cittadino – siamo ormai abituati ad associare agli esponenti della banda della Magliana o giù di lì. “Spiegheme come fai a dimostra’ che stavi ferma.”

“Ma come… dimostrare? Ma se tu…” Ale avrebbe ragione da vendere, in teoria.

“Sì, sì… come no. Se io. Se tu… Tu provace a parla’ co’ qualcuno, io je dico che te stavi a move e che me sei entrata dentro. Poi vedemo chi è quello impazzito.”

E come si risponde a un’esternazione del genere?

Non so voi, non so io, ma Ale di sicuro non ci riesce. E l’autista continua a parlare, con fare  infastidito.

“ Te conviene taja’ corto, regazzì: nun so se ce lo sai, ma ogni minuto che passa so’ 800 euri che devi pagà ar Comune, perché questa se chiama interruzione de servizio pubblico.”

(Pure.)

Ale sarà anche in tuta (dettaglio che la fa apparire più giovane di quanto in realtà sia) e senza telefono (dettaglio che le impedisce di chiamare aiuto, quando in realtà sarebbe davvero il caso), ma un briciolo di intelletto ancora se lo ritrova. Perciò reputa più opportuno lasciar andare via il tipo e correre dai vigili. Forse loro le possono dare una mano, pensa.

“Signorì…” le dicono, mentre prendono la denuncia dimostrando se non altro un minimo di tatto in più rispetto al frizzante autista di cui sopra. “… ma se lo ricorda er numero de targa?”

“Ehm… no.” (La rabbia sta iniziando a fare i suoi effetti.)

“Ah. Er numero dell’autobus?”

“Ehm… no.” (Lo spavento sta completando l’opera.)

“Ah, ma almeno che sta faccenda l’ha già persa in partenza… quello lo sa, vero?”

E così, Ale torna a casa con la coda fra le gambe e una macchina ammaccata che grida vendetta. Io, invece, al termine del racconto torno nel sottosuolo perché almeno sotto la metro è veramente difficile che qualcuno ti investa in questo modo.

(Tratto da una storia realmente accaduta ad Alessandra G., lettrice di “Giulia sotto la metro”)