La dura scuola della metro A

È la classica serata invernale in cui, di ritorno dal lavoro verso i domestici lidi di Roma sud, la mia collega Renata e io ci ritroviamo a bordo di un vagone della A e decidiamo di fare un po’ di conti per capire quanto prenderemo di stipendio questo mese.

(Lo facciamo spesso, peraltro, ma senza averci mai capito un accidente. Non ci indoviniamo mai. Non so neanche perché continuiamo a farlo, vista la manifesta impraticabilità di campo.)

Mentre da un lato ascolto Renata che cerca di spiegarmi i pro e i contro di due diversi tipi di contratto (inutilmente, perché io non ci capisco mai niente comunque), dall’altro presto attenzione a una scena che sembra promettere molto bene. A Flaminio, due ragazzini su per giù delle medie in vena di schiamazzi entrano e si scaraventano sui primi due posti a sedere che trovano sul loro cammino; ovviamente, senza dare la precedenza ai presenti in piedi. Questo dettaglio, che molti ormai danno per scontato senza scandalizzarsi troppo, viene invece notato da un signore sui settanta che li apostrofa senza mezzi termini.

“A regazzì,” dice a quello che dei due sembra più scalmanato. “E potevi fa’ sede’ qualcuno al posto tuo…”

“Nooo…” gli risponde il diretto interessato. “So’ troppo stanco, ‘n ce penso proprio.”

“Ma che stai a dì? Sei troppo giovane pe’ esse’ stanco!”

“Ma che stai a dì te?” Amo i ragazzini che danno del tu agli anziani, senza sapere che al mondo una volta esisteva una roba chiamata rispetto. Bei tempi, by the way. “Io già sto a collassa’ mo’… e pensa te che devo pure fa’ i compiti: guarda, c’avemo i libri!” Rivela tronfio, mentre con il dito indica un manuale di storia aperto sulle ginocchia dell’amico.

(Nel frattempo, la mia collega indefessa e ammirevole sta ancora cercando di spiegarmi come funziona esattamente il meccanismo dell’aliquota fiscale e la ragione per cui a volte troviamo il nostro stipendio trasfigurato con sfumature mistiche. Eppure, di nuovo, è tutto inutile: io capisco solo che avevo pensato di comprarmi un maglione e un tavolinetto per metterci il giradischi, ma  sono rimasti entrambi ancora al negozio.)

Poco convinto dalla faccenda del libro di storia, il signore anziano lancia una sfida al giovane virgulto: “Senti un po’, regazzì: per dieci euro i compiti te li faccio io…”

“E te che ce guadagni?”

“Che me prometti che nun te sbraghi più sui sedili, come se stessi sul divano de casa tua.”

“Beato te! Sul divano de casa mia n’è possibile: là ce stanno Netflix e la Play. Qua… un cazzo!”

Per fortuna, siamo arrivati a Barberini che a quanto pare è la destinazione dell’anziano signore, il quale mette così fine al surreale supplizio verbale in cui è rimasto aggrovigliato con una punta di ingenuità senile. Non finisce, invece, per il ragazzino alle prese con i compiti di storia. Lui e il suo compare devono studiare le gesta di Napoleone, come si deduce dalla seguente esclamazione: “Aho, ma questo n’è quel nano demmerda che c’ha rubato le statue e se l’è portate in Francia?”

“Ma come ti permetti?” Si intromette, visibilmente piccata, la signora seduta accanto a lui.

“Ma come te permetti te? Ma chi te conosce?” Non manca un colpo, il fanciullo.

“Non conosco te, ma conosco Napoleone. Era un grande uomo e tu dovresti studiare quello che ha fatto, magari impari qualcosa ché ne avresti bisogno.”

“Ah sì? E te che cazzo ne sai?”

“Lo so, perché sono una professoressa e di svergognati come te che non conoscono neanche l’educazione ne ho visti a centinaia.”

C’è un attimo di doveroso silenzio, perché nonostante tutto il colpo a sorpresa è andato a segno. Ma dura giusto un attimo, perché poi il ragazzino si gira verso l’amico e chiosa: “Ma che i professori prendono pure la metro?”

E l’altro, perplesso: “Ma che ne so… io pensavo che stavano solo dentro le scuole…”

A quel punto, nei pressi di San Giovanni parte una girandola che – complice la migrazione da e per la linea C – porta a bordo un bel trambusto: la mia collega scende insieme a tutti i miei atavici dubbi sul regime fiscale che governa i nostri stipendi; dopo di lei, entra prima una coppia di punkabbestia (già incrociati in giro molteplici volte, mi pare di ricordare che lei abbia una figlia di nome Shakira o qualcosa di simile) con in mano una vecchia copia di Nathan Never e indosso le tute della Roma e poi, un istante dopo, un’altra mia vecchia conoscenza. Trattasi di signora anziana con qualche evidente disturbo psichico che la porta a interagire con i passeggeri in maniera – per così dire – piuttosto selvaggia. Oggi, ha deciso di chiedere l’elemosina percuotendo vivacemente i sostegni metallici con una moneta da un euro. Ha iniziato proprio da me e ciò è un problema, perché la conosco e so che non prende affatto bene qualsiasi cortese tentativo di eludere le sue attenzioni. Così, inizio a pensare a un modo per non alimentare la sua ira, che poi diventa sempre piuttosto difficile da placare, e tutto sommato mi trovo a convenire per una volta il ragazzino di cui sopra non ha torto.

(Lo dico in relazione a quello che è successo a lui, ma anche a quello che potrebbe succedere a me tra un attimo.)

“Oh, meno male che ‘a vecchia è scesa…” gli ha detto l’amico, un attimo dopo che la professoressa interventista ha lasciato il vagone. “Altri cinque minuti e ce metteva pure er voto, ‘sta stronza!”

“Eh, però, ‘o vedi che a volte fasse i cazzi sua paga…”

“Perché?”

“Perché se davo subito retta ar vecchio, mo c’avevamo 10 carte in meno e i compiti fatti. Pe’ fa’ de testa nostra, mo c’avemo dieci carte in più e i cojoni sfracassati.”

Ed è proprio per la salvaguardia della mia psiche (che – bontà loro – i ragazzi hanno ubicato spontaneamente nell’apparato genitale) che sto per dare un euro alla vivace signora. Perché non c’è dubbio che questi due siano ignoranti e selvaggi che la metà basterebbe, ma con l’ultima frase mi hanno convinto. E manco poco.

(Questo racconto è stato vissuto e scritto a quattro mani con la collega Renata S., lettrice di “Giulia sotto la metro”.)