Gli amici del gruppo treno

Con questo racconto, Raffaella Battiston si aggiudica la menzione 

per il miglior messaggio costruttivo di Férmate 2019,

il primo concorso per viaggiatori metropolitani sull’orlo di una crisi di nervi,

indetto da Giulia sotto la metro.

Ore 7,00: si esce di casa.

Attraverso di corsa lo stradone già colmo d’auto, in direzione del primo dei tre mezzi che mi condurrà a lavoro, la metropolitana. La discesa verso il centro della terra non mi spaventa, né l’idea di avere sopra la testa il letto di un fiume. Sono il prezzo da pagare per raggiungere la stazione, ma non l’unico.

L’altoparlante che martella le teste assonnate della gente è un altro scotto inevitabile: “Prossima fermata Libia, treno per Laurentina; next stop Libia, train to Laurentina” e così via, ripetuto per ogni fermata al limite dei decibel sopportabili. Quando arrivo a Termini mi dirigo svelta verso il binario 14, dove il regionale delle 7,42 per Nettuno mi lascerà incredula sulla banchina se partirà in orario!

Scale mobili, corridoi, gente contro, tutti ostacoli che rallentano la corsa verso la meta. Riesco a prendere il mio treno all’ultimo minuto e come sempre lo percorro tutto fino al secondo vagone, dove ogni giorno ritrovo gli amici del gruppo treno, pendolari che da Roma raggiungono Aprilia per lavoro. Alcuni lo fanno da diversi anni, come Mirco e Daniele, altri solo da mesi, come Betta, Valeria e Francesca. C’è chi partecipa a questo “rito” regolarmente come Marco e Giuseppe, le mamme Eleonora e Chiara qualche giorno a settimana. Trovarci insieme ogni mattina rende il nostro pendolarismo più sopportabile e per mezz’ora possiamo chiacchierare, scherzare tra noi o stare tutti in silenzio, senza alcun obbligo. L’andata e il ritorno dopo otto ore di lavoro ci rende parte di una piccola comunità, in cui il viaggio tiene legate in qualche modo le nostre vite. Ci salutiamo come ogni mattina, ci chiediamo “come va” per una consuetudine diventata affetto, quasi una premura reciproca.

Mentre mi sistemo sul sedile, noto tra tutti due facce sconosciute, una donna e sua figlia di tre o quattro anni, avvinghiata alla madre e con gli occhi fissi nel vuoto. Qualcosa di triste vela i due volti, che hanno la stessa espressione infelice. L’arrivo rumoroso di Edoardo e Monica distoglie il campo visivo della bimba: incuriosita ci guarda uno ad uno, mentre il treno si muove e un’esultanza comune accompagna la partenza in orario. Sorrido alle due donne, ma reagiscono con un’espressione priva di ogni gioia. Così le osservo di sottecchi, studio i volti spenti, i poveri vestiti che indossano, la stretta della bimba intorno alla vita della mamma. Mi rendo conto che non sono semplici straniere e lancio un’occhiata piena di compassione a Fabrizio: ci capiamo all’istante perché mi risponde con lo stesso sguardo.

Gli altri parlano chiassosi, non hanno notato quella macchia opaca sul dipinto allegro di noi occidentali fortunati. Il viaggio scorre leggero per tutti, tranne che per quelle due creature, che sembrano sprofondare nei sedili per non essere viste da nessuno, pur sapendo che quel viaggio è forse il migliore degli altri intrapresi. Quando la donna estrae da un sacchetto logoro una merendina per la piccola, i suoi occhi si illuminano all’istante e un accenno di sorriso si fa largo mentre addenta il dolcetto. “Siamo in arrivo a Campoleone, we’ll be arriving to Campoleone”.

A una manciata di minuti dalla fermata, dalle porte automatiche compare un nugolo di uomini, indossando fratini con la scritta “Assistenza clienti”. Alcuni passano oltre, mentre due si fermano nel nostro vagone. In un attimo gli occhi amorevoli della mamma si trasformano in uno sguardo di terrore, mentre i due procedono dagli estremi della carrozza. Comprendo all’istante e infilo veloce la mano nella borsa, alla ricerca del mio abbonamento, lo afferro e simultaneamente mi alzo dal mio posto. Con una frase banale mi avvicino a Filippo che mi osserva confuso e restando in piedi tra le file dei sedili posiziono il braccio dietro la schiena, agitando la mano verso la donna mentre di nascosto scruto i controllori. Sento sfilare piano la tessera e mentre uno di loro si avvicina torno a sedermi. Il cuore batte forte, non ho avuto il tempo di pensare a ciò che facevo.

“Biglietto prego!” la donna porge il mio abbonamento all’uomo, che lo esamina attentamente, poi rivolto di nuovo a lei pronuncia in tono inquisitorio prima il nome, poi il mio cognome tipicamente friulano scritti a penna sul cartoncino colorato. Tutti si girano stupiti e all’unisono verso di me, che fingo di rovistare nella borsetta perché intanto l’altro controllore ha chiesto l’esibizione del mio biglietto. Ricambio lo sguardo ai ragazzi e pronuncio in una recita eroica: “Non è possibile! Ho lasciato la tessera a casa, sarà perché stamattina ho cambiato borsa!”.

Il primo controllore mangia la foglia e in tono piccato propone al collega una “bella multa”. Un’onda di no segue la proposta, chi si sbraccia, chi garantisce per me, chi si offre da testimone per evitarmi la sanzione. I due si guardano, hanno capito tutto e non sanno se opporsi alle proteste incalzanti dei ragazzi. Io fisso entrambi negli occhi, a turno, non con aria di sfida ma solo di attesa: mi aspetto di ottenere comprensione, intelligenza, tolleranza, in una parola umanità. Un ultimo sguardo ai due e poi alla bimba, protetta dalle braccia della madre che fissa il pavimento sospesa in una pausa infinita. L’attenzione ora è su di loro, come un faro che le illumini dall’alto mentre intorno è buio pesto. Sono sole, in balìa di un nuovo mondo dove tutti potrebbero essere ostili, aspettano una punizione, un nuovo insulto, l’ennesima percossa.

Sembra un tempo lunghissimo quello in cui siamo immersi tutti, un’attesa interrotta dalla voce di uno dei due uomini che, guardando il collega, intima: “Siamo costretti a farla scendere dal treno signora, per questa volta non le faremo la multa, ma stia più attenta in futuro”. Ringrazio in tono pacato, con l’animo soddisfatto e il cuore felice e non aggiungo altro. Mi avvio obbediente verso l’uscita senza voltarmi, lasciando nelle mani della donna quel banale pezzo di carta, che forse le risparmierà un altro brutto episodio nel suo viaggio disperato verso la salvezza. Tutti mi seguono per scendere alla fermata di sempre, ma mi accorgo subito che cammino sola sulla banchina della stazione di Aprilia, così mi volto e vedo i ragazzi confabulare, aprire borse, zaini, contando tra le mani. Mi raggiungono tutti, hanno raccolto del denaro, chi 5 euro, chi 8, chi qualche spicciolo. Mirco me li porge: “Sono 64 e 50, mancano 9 euro per ricomprare l’abbonamento”.

Lo guardo negli occhi, poi tutti gli altri, uno ad uno, ringraziandoli commossa. Abbiamo aiutato due persone in difficoltà, compiendo tutti insieme un’azione virtuosa: una piccola goccia in un mare di egoismo e indifferenza, al di là delle ideologie, delle idee politiche, delle sterili polemiche. In quel momento mi sento fiera di queste ragazze e di questi ragazzi, con cui condivido solo poco tempo della mia giornata ma che ormai fanno parte della mia vita: loro saranno sempre i miei insostituibili amici del gruppo treno.