Nelle prime mattine di giugno, andare a lavorare vuol dire trovarsi intrappolati tra sciami di bambini, ragazzini e ragazzetti che, cartelle a terra e gavettoni in mano, festeggiano la temporanea fine delle torture scolastiche. Tale circostanza fa scattare strani trip nel cervello: nostalgia, malinconia, ricordi, rimpianti, sogni, incubi, amori corrisposti e non…
Di solito, tutto si amalgama nel mio cervello, trasformandosi in una miscela incantata che per qualche attimo catapulta il passato nel presente e mi fa sentire parecchi anni di meno addosso.
A volte, però, non si tratta di un transfert onirico, ma di un’esperienza reale.
Ovvero non è il passato che si catapulta nel presente, ma è il presente. Come oggi.
Schivati i gavettoni della scuola elementare prima, della scuola media poi, lungo la strada che porta a Furio Camillo passo davanti a un’officina. Guardando dentro, riconosco un tipo che mi piaceva in seconda media e che, per quel che mi ricordo, aveva messo ben in chiaro che gli facevo cagare (…come a molta gente delle medie, d’altronde. Ci ero quasi abituata).
Lo guardo di sfuggita: più roscio e più pallido di come lo ricordassi, le mani rovinate e sporche di grasso, un crocifisso al collo che dev’essere il principale responsabile della sua cifosi, un paio di occhiali che il tempo ha trasformato in fondi di bottiglia e un senso dell’umorismo – da quello che riesco a sentire – decisamente discutibile.
Ecco. Mi fermo per un brevissimo istante, lo guardo ancora una volta… E poi, tirando dritto, ripenso a quanto gli facessi cagare all’epoca e ringrazio il buon Dio.
Continuo a camminare verso Furio Camillo e arrivo all’altezza della pizzeria a taglio dove spesso all’epoca compravamo la merenda e dove – che te lo dico a fa’ – impazza la pioggia di gavettoni (Tu guarda se oggi arrivo fradicia in ufficio, va’).
Reprimo l’istinto di andare a prendere mille lire di pizza bianca – anche perché quanto meno dovrei chiedere l’equivalente in euro – e faccio per tirare dritto, ma sono costretta a fermarmi un’altra volta. Nel negozio sta entrando una ragazza che, all’epoca delle medie, per vari motivi frequentavo spesso. Le stavo sul cazzo, ebbi modo di scoprirlo solo alla fine del triennio, ma anche questo era un fenomeno abbastanza diffuso all’epoca, quindi non mi sento di odiarla particolarmente.
Certo, non la ricordo in maniera tanto piacevole da pensare di salutarla, però una domanda vorrei fargliela:
“Oh tu, che venticinque anni fa eri già alta otto metri e per guardarti dovevo usare il cannocchiale, com’è che ora mi appari così vicina? Giuro che io non ho preso mezzo centimetro dall’epoca e si vede… sarà mica che ti sei abbassata tu?”
Ve lo giuro. È una roba che non ci si crede.
Cerco tracce di quella gazzella slanciata e affascinante, dai movimenti sinuosi che spesso le permettevano di essere accostata alla mitologica Miriana di Non è la Rai, ma vedo solo una casalinga dimessa e decisamente ristretta.
Mi specchio rapidamente nella vetrina del negozio, faccio un ultimo confronto e –di nuovo – ringrazio il buon Dio.
Continuo a camminare verso Furio Camillo dilaniata dal dubbio: sono finita a mia insaputa nel testo di Glory days di Bruce Springsteen o piuttosto dentro Ritorno al futuro? In ogni caso sarebbe un bel problema, perché – se veramente sono nel passato – da un momento all’altro rischio di essere schiumata con una bomboletta spray o di essere colpita da un uovo marcio, di essere insultata perché con la mia bruttezza inquino l’ambiente solo a esistere, di vedere affissa ai muri una mia caricatura a forma di coniglio che mi indica come cavia per la vivisezione e infine di venire derubata del mio orologio da una gang invasata che lo sbatte contro un termosifone fino a romperlo.
(Ah… bei tempi quando la vita era più facile e si potevano mangiare anche le fragole, vero?)
Nel dubbio, affretto il passo verso Furio Camillo e mi tranquillizzo solo quando la porta del vagone si chiude alle mie spalle.
Errore. A quanto pare, il viaggio nel tempo stamattina non è destinato a finire.
In piedi davanti a me, c’è un’allegra famigliola: padre, madre e bimbo nel passeggino. Simpatici, teneri… brutti ammazzati.
Lo so, dovrei smettere di guardarli perché rischio di risultare scortese, ma in lui c’è qualcosa di veramente molto familiare. Non so dire cosa, non riesco a focalizzare, sto diventando stupida per lo sforzo mnemonico, eppure… Fermi tutti! Ho capito! E quasi muoio per lo spavento.
Amico mio, avrei una domanda anche per te:
“Oh tu, che ventiquattro anni fa eri bello come il sole, centrale titolare e inamovibile della squadra di scuola, uno dei fighi della classe dei più fighi, uno che per un tuo ciao avrei firmato assegni in bianco, uno che (insieme a quegli altri due) ha popolato i miei sogni pseudo-erotici per anni…
Ebbene, oh tu, cos’è quell’ammasso di grasso che ti avvolge per intero? Cos’è quella devastante assenza di capelli che svetta sul tuo volto, gonfiato con il compressore?
Ma soprattutto, cos’è quella roba che ti cammina accanto con la fede al dito? Cos’è, in nome di Dio, quell’omino Michelin con la permanente venuta male e un guardaroba da spavento che – a quanto pare – è unito a te nel sacro vincolo del matrimonio? Cazzo, avresti potuto avere chiunque di noi, amico mio, avresti potuto scegliere sul serio. Avresti potuto fare davvero un sacco di cose, e magari le hai fatte… Ma ora ti vedo costretto a pregare che tua figlia non somigli né a tua moglie né a te e ne sono sinceramente dispiaciuta”.
Nel nome di Dio, che oggi non ringrazierò mai abbastanza, ho perso le parole.
(Sì, come Ligabue. Io, però, avrò la decenza di non farci una canzone: mi limito a questo racconto.)
Mentre il viaggio in metro volge al termine e solo il fatto di essere ormai lontana dal quartiere mi rende un filo più tranquilla, mi ritrovo a pensare a tutto quello che ho visto.
Il meccanico (consunto) e la (ex) gazzella non mi hanno traumatizzato. Almeno, non tanto quanto questo tipo qui. Senza esagerazioni, è come se fosse passato dallo status “Gerard Butler in 300” allo status “Tom Cruise in Tropic Thunder”.
Forse non mi risolleverò mai da questa presa di coscienza, ma almeno una cosa l’ho imparata. Devo per l’ultima volta ringraziare il buon Dio per il fatto che il suo migliore amico, quello lì, proprio lui, quello che un tempo (per dirla con il Poeta) biondo era, e bello e di gentil aspetto abiti a Milano e nessuno sappia più niente di lui.
Perché se mai dovessi scoprire che il mio unico e solo, centenario amore platonico dell’adolescenza sta ridotto così, ve lo giuro, potrei non reggere il colpo.
E di questi tempi, meglio evitare.