Ci sono dei giorni in cui lo capisci subito che c’è qualcosa che non va. Che qualcuno ti ha inserito per sbaglio in un episodio di Ai confini della realtà. Che se non ti sbrighi a tornare a casa e a rimetterti a letto, grasso che cola se arrivi a ora di pranzo.
Da cosa lo si capisce? Piccoli dettagli, ma che – a saperli leggere – deflagrano forti e chiari… come un colpo di pistola, direbbe un tipo un po’ antipatico col cappellino in testa e un microfono in mano.
Mi spiego meglio.
Esterno giorno, 7:15 in punto, fermata Furio Camillo.
Ho il turno di mattina, quindi ho sonno e mi girano fortemente gli ingranaggi in senso antiorario. Vado a passare la mia tessera della metro al tornello, il tornello suona, le porte si aprono e io passo.
Tutto normale, no? ’Sto cazzo.
Quando vado a rimettere a posto la tessera, mi accorgo che non è affatto quella dell’ATAC, ma quella del supermercato.
Sono passata al tornello con la tessera del supermercato. Del supermercato, cazzo.
Vorrei capire come ho fatto, vorrei capire come sfruttare la cosa a mio vantaggio, vorrei capire come farci i soldi… ma ho troppo sonno e quindi mi riprometto di pensarci più tardi. Purtroppo non ci riuscirò, perché – anche se ancora non lo so – dell’episodio di Ai confini della realtà questo è solo l’inizio.
Scendo a Ottaviano, con l’intenzione di avviarmi a passo spedito verso l’ufficio, ma non ci riesco.
Primo, perché diluvia.
Secondo, perché la scena che mi trovo davanti appena uscita dalla metro mi paralizza. In cima alle scale ci sono due sposi, vestiti di tutto punto, ma con le galosce e le scarpe di ricambio in un sacchetto, riparati solo da un misero ombrello, di quelli degli ambulanti.
Giuro.
Se ne stanno lì, impalati, a rovistare in borsa per trovare i biglietti della metro, mentre l’acqua che scroscia impietosa inzuppa crudelmente il tight di lui e lo strascico di lei.
So che rischio di apparire invadente, ma non riesco a smettere di guardarli (un po’ come quando in tv danno Malattie imbarazzanti, diciamo). Voglio dire, va bene che sposa bagnata sposa fortunata… Va bene che è l’amore e non una cerimonia sfarzosa a rendere bello un matrimonio… Va bene che non tutti sono obbligati ad arrivare – come ho fatto io – a bordo di una cadillac rosa del ’57…ma questi due appaiono talmente sconsolati che farebbero rivoltare nella tomba Biancaneve, Cenerentola e anche lo zio Walt (anche se, va detto, sul decesso delle prime due non ci sono prove certe).
Vorrei parlargli, vorrei fare qualcosa per loro, vorrei regalargli in qualche modo un sorriso, vorrei capire per quale motivo sono finiti nell’episodio di Ai confini della realtà che mi tocca interpretare da questa mattina, ma devo andare urgentemente a lavorare. Quindi li lascio alle insistenti attenzioni di una signora nanerottola e grassottella che continua a chiedere con una certa insistenza: “Allora, ragazzi… è il grande giorno? Vi state andando a sposare?”.
(No, signo’… stanno andando a girà lo spot de’ n’agenzia matrimoniale pe’ sfigati…)
Quello che succede durante tutto il giorno in ufficio ve lo risparmio, un po’ perché da me succedono sempre cose che i confini della realtà li superano pesantemente, un po’ perché sennò sarei costretta a svelarvi tanti meccanismi biechi che si nascondono dietro lo schermo televisivo e sarebbe come spiegarvi i trucchi del mago Silvan. Che gusto ci sarebbe poi a guardare le prossime puntate di X Factor o del Grande Fratello?
Ecco. Sta di fatto però che, quando ritorno a Ottaviano con la testa come un pallone e gli occhi da buttare al cesso, non sono affatto pronta ad affrontare il seguito del telefilm di fantascienza iniziato stamattina. Né psicologicamente né fisicamente.
(Secondo voi, però, alla divinità che governa la metropolitana di Roma gliene frega qualcosa della mia psiche e/o del mio fisico? No. Appunto.)
Dato che si è fatto piuttosto tardi, riesco a entrare in un vagone poco affollato, faccio per aprire l’immancabile copia di Topolino che vorrei mi facesse compagnia fino a Furio Camillo, poi mi blocco. Quello che vedo davanti a me è al limite del surreale.
Voglio dire, è vero che di questi tempi uno stagista non si nega a nessuno… è vero che ormai si sprecano i giovani virgulti che, per 300 € al mese (se non aggratis), vengono affiancati a esperti di ogni settore per imparare un mestiere, per fare caffè e fotocopie, ma anche per pulire per terra alla bisogna… è vero che oggi esistono stagisti-autori, stagisti-gondolieri, stagisti-netturbini.
Ma francamente io la stagista-rom me la sarei risparmiata volentieri.
Sì. Esatto.
Avete capito bene.
Sul mio vagone sono salite due zingare. La più giovane, vestita di tutto punto da stracciona con tanto di neonato di tre anni appesa al collo, cerca di recitare la ormai celebre cantilena standard che tutto il mondo metropolitano ormai sa più che a memoria:
“Buonaseeeera signori signoreee… scusate di disturbare sono di familia poveraaa… senza casa senza lavorooo… uno moneeeta per latte la bambina”.
L’altra, più grande e molto più arcigna, la scruta in un angolo, giudicandone severamente ogni singola azione.
E sì che di lavoro ne ha da fare.
Perché magari uno non ci pensa, ma per riuscire a fare quel monologo in maniera credibile, senza fermarsi mai e magari riuscendo anche a strappare qualche spicciolo in giro non è mica facile.
Ci vogliono occhi smorti da triglia lessa, ma acuti abbastanza da individuare il prossimo pollo; l’atteggiamento dimesso e trascinato, ma contemporaneamente pronto a scattare in caso di guardie inattese; la cantilena costantemente sofferente, ma senza picchi audio; la capacità di stringere il pupo al petto come se pesasse due chili quando invece ne pesa otto.
Insomma, un lavoraccio. Sicuramente non è facile da imparare, a giudicare da quanto è imprecisa e poco emozionante la performance della stagista in questione. E anche da quanto si sta innervosendo la sua tutor di oggi.
La matricola sbaglia tutti gli accenti, chiudendo ogni singola vocale che dovrebbe essere aperta e viceversa… e la veterana scuote gravemente la testa.
La matricola fa pause quando dovrebbe parlare spedita, ma parla quando dovrebbe fare le pause che generano suspence… E la veterana scuote il dito indice in segno di sdegnato rimprovero.
La matricola, nel tentativo di chiedere l’elemosina a un passeggero, allunga la mano e rischia di far cadere il pupo in braccio a un passeggero… E la veterana si lascia andare a un isterico: “Tsk! Tsk! Tsk!”.
Non oso pensare a cosa potrebbe accadere alla poveretta quando fallirà rovinosamente nel tentativo di sfilare il portafoglio a qualcuno con il famosissimo stratagemma del cartone.
Ora. Sul momento, io mi sto ammazzando dalle risate per la genuina comicità della scena in sé, ma poi ci penso meglio e l’ilarità mi muore alla bocca dello stomaco.
Voglio dire, preso per buono l’assunto secondo il quale io da stamattina sto vivendo un episodio di Ai confini della realtà, da un lato va detto che la scena a cui assisto conferma nettamente tale assunto; dall’altro, però, bisogna domandarsi cosa accadrà alla giovane stagista-rom al termine di questa disastrosa giornata di prova.
Non ve lo devo certo ricordare io quanto sapevano essere sadici certi finali di quel vecchio telefilm, no?
Ecco. Per cui, non solo smetto di farmi beffe della povera tirocinante balcanica, ma – dato che anche la mia giornata sta finalmente volgendo al termine – inizio a chiedermi anche cosa capiterà a me dopo (nell’ordine): la tessera del supermercato che apre i tornelli, gli sposi più sfigati della storia dei matrimoni, una giornata di lavoro devastante e una stagista zingara.
Rabbrividiamo.
Arrivata a Furio Camillo, mi faccio forza, cerco di scacciare la paura, scendo dal vagone e mi avvio verso la superficie con una voglia di essere a casa che la metà basta.
Ovviamente (…e come te sbagli?) all’altezza dei distributori automatici di biglietti vengo fermata da una coppia di signori di mezza età dalla provenienza indecifrabile. Sono quasi le 21, la fermata di Furio Camillo è quasi deserta e io non ho esattamente tutta questa voglia di fermarmi a chiacchierare con loro. Conoscendo però l’alto livello di suscettibilità degli sceneggiatori, non mi va di indispettire quello che ha scritto l’episodio a cui partecipo da stamattina (se si scoprisse che è proprio G.R.R. Martin? Mi frego un aggancio da paura con Game of Thrones proprio sul più bello…) e decido di stare al gioco.
“Mi dica, signore? Come posso aiutarla?”
“Come comprare biglietti? Macchina rotta…”
(Ma che rotta… Per chi ci hai preso? Mo vabbè che Roma è il terzo mondo, ma in genere un cartello di guasto ce lo mettono…)
Lo penso, ma non lo dico: un po’ perché il signore ha fatto lo sforzo di mettere quattro parole italiane in fila, un po’ perché alla fine non sono neanche troppo sicura della veridicità del mio pensiero. Invece mi avvicino e cerco di capire il problema.
Il tipo continua insistentemente a schiaffare nell’apposita fessura due euro che la macchina continua implacabile a risputare.
Già mi preparo a esibirmi nel must del viaggiatore romano che, con esperto savoir faire, prende la moneta con due dita, la gratta contro la parete metallica del distributore nel tentativo di smagnetizzarla (…funziona? Non funziona? Realmente non è dato sapere. Ma fa tanta scena e quindi perché non farlo ancora una volta?), ma quando prendo il soldino sono costretta a interrompere il mio numero.
…Che cazzo di valuta è?!
Per dimensioni e colore, si direbbero assolutamente due euro, ma non lo sono.
Li giro e li rigiro, dopo un po’ notò una piccola scritta: Azerbaijan.
“Signore, non è rotta la macchina… è lei che ha messo dei soldi dell’Azerbaijan!”
“De che?” (Giuro. Ha detto così. E lo ha detto talmente in maniera spontanea che gli perdono persino l’accento improponibile.)
“Questi non sono due euro.”
“Ah, no?”
Glieli porgo e mi stupisco del suo stesso stupore. A quel punto, davo per scontato che la coppia provenisse dall’Azerbaijan, ma quello mi guarda come se potessi spiegarglielo io, come mai sia in possesso di quella moneta.
Figlio mio… se non lo sai te, figurati io.
Quello che so, invece, è che lui – non me lo deve neanche dire, glielo leggo in faccia – due euro col cavolo che li ha.
Ne prendo tre dal mio portafoglio, faccio i biglietti, li porgo a lui e alla moglie e mi beo del loro sorriso di sconfinata gratitudine che diventa istantaneamente l’unica gioia della mia giornata.
Il signore sta per dirmi qualcos’altro, lo vedo, ma il mio istinto di protezione è più veloce della sua favella.
“Si figuri, è stato un piacere”, dico per batterlo sul tempo. “Arrivederci e buona serata.”
Inizio a correre su per le scale e mi dirigo come una pazza verso casa. Non lo so cosa è previsto dal copione per il finale di questo episodio, ma nel dubbio mi vado a sparare la nuova puntata di The walking dead. La fantascienza è bella, per carità, ma a volte – e io ne ho dato prova oggi – è imprevedibile… con gli zombie, per fortuna, se gli pianti uno zeppo in testa, poi puoi andare sereno per la tua strada.