La morale della favola, che questa storia vi svela ancor prima di iniziare, è che io posso andare pure a sciare su un ghiacciaio a 4000 metri di altezza in cerca di quiete, ma gli smadonnamenti metropolitani mi seguono in capo al mondo, in braccio alle stelle e anche – va da sé – in culo alla luna.
È una giornata di fine luglio sul ghiacciaio del Plateau Rosa, perla delle Alpi al confine tra Val d’Aosta e Svizzera (…o così lo definirebbe, che ne so, Piero Angela).
Da quando sono arrivata in quota, dopo aver preso, nell’ordine, due ovovie e una funivia, la nebbia non ha fatto altro che andare e venire, le piste sono state intasate dagli allenamenti di diversi Ski Team e il mio umore non è dei migliori, dato che questa situazione mi costringe da un paio d’ore a ripetere incessantemente la stessa pista, breve e monotona.
All’improvviso, però, guardando verso la sommità della montagna in cerca di un qualsivoglia diversivo, mi accorgo che la nebbia si è definitivamente diradata e, di conseguenza, che il collegamento ski-lift con l’altro versante del Cervino è stato riaperto.
Lo raggiungo, per sicurezza chiedo se posso salire all’omino dell’impianto (svizzero nel modo in cui sanno essere svizzeri solo Aldo, Giovanni e Giacomo) e lui mi fa cenno di sì.
Quello che però si è dimenticato di dirmi, la merda transalpina, è che poi non posso scendere… Cosa che scopro a mie spese dieci minuti dopo, arrivata alla fine dello ski-lift, quando vedo un altro omino degli impianti transennare tutte e tre le piste che mi riporterebbero al punto di partenza originario, ovvero il Plateau Rosa. Cazzo.
Provo a chiedere spiegazioni, ma immaginatevi la scena di me che, un po’ in italiano, un po’ in inglese e un po’ in tedesco, parlo con Aldo (di Aldo, Giovanni e Giacomo) nei panni del poliziotto Huber. Mi sembra già un miracolo che io sia qui a raccontarvi questa storia.
Comunque, andiamo avanti.
La seconda merda transalpina, dopo un lungo e accanito battibecco poliglotta, si convince a mettermi su una moto-ski di un collega che passava di là e a farmi scaricare davanti alla funivia che transita sulla cima del Matterhon, altrimenti detto Piccolo Cervino.
Quando scendo dalla moto-ski, un terzo omino degli impianti mi fa cenno con la mano di prendere la funivia: sembra più cortese degli altri due e quindi non merita l’appellativo escatologico di cui sopra; non ancora, almeno.
Obbedisco prontamente, salgo a bordo di questa enorme funivia che parte dalla non indifferente altitudine di 4000 metri e mi godo la vista: sotto di me si estende un maestoso ghiacciaio che risveglia tanti ricordi da incubo del periodo in cui studiavo geomorfologia.
(Sì, ho fatto pure quello. E – pensa un po’ – per hobby!)
L’emozione data dalla vista sensazionale, ahimè, svanisce all’arrivo, cioè quando mi rendo conto che quella funivia non porta affatto al Plateau Rosa, ma in Svizzera – direzione Zermatt.
Guardo subito verso il grande tabellone luminoso, su cui campeggia a caratteri cubitali la dicitura: ultima risalita verso l’Italia ore 12:45.
Che ore sono adesso? Le 12:45.
Potevano scrivere “te do ’n culo”, facevano prima.
In preda al panico che inizia inequivocabilmente a montare, chiamo mio marito che è rimasto sereno e pacioso a valle a Cervinia a fare trekking.
E infatti non mi risponde.
E quando mai.
Quindi, comincio a correre (che poi, correre… Con gli scarponi ai piedi e gli sci in mano, sai quanto so’ plastica! Manco te lo vojo di’, guarda…) verso l’imbarco della funivia dove vengo fermata dalla – e qui ci sta tutta – merda transalpina n. 3.
Ricomincio la filippica in inglese: “Please, let me go: I need to go back to Cervinia. Pleaaase!”
Niente, he doesn’t give a shit.
Ovvero, gliene sbatte il cazzo che devo tornare a Cervinia. A stento mi risponde.
Risponde invece – e in maniera affermativa – a tre giapponesine in shorts e canottiera che evidentemente, al contrario di me, non patiscono il freddo becco dei 4000 metri.
Mentre le vedo attraversare il fottuto tornello che mi impedisce di raggiungere il suolo patrio, commento tra me e me ad alta voce: “Mo’ però me devi spiegà perché queste passano e io no, che cazzo”.
E a quel punto, inspiegabilmente, la merda transalpina n. 3 decide di dare la svolta a quest’avventura.
“Ma sei italiana?” mi chiede.
(Ma certo che sono italiana, idiota! Ma che non mi senti come parlo? E soprattutto per quale cazzo di motivo credi che ti stia scassando la minchia da un quarto d’ora? Eh? Perché sono una patita dell’attraversamento dei confini geografici, forse?!)
“Sì. E vorrei tornare a casa per pranzo.”
Come per magia, ciò che prima era impossibile diventa fattibile in due secondi: l’omino dell’impianto (non più merda transalpina, mi pare evidente) parla al walkie talkie, blocca la funivia, mi fa passare di corsa al tornello e si assicura che io salga a bordo.
Lascio immaginare al lettore l’espressione interdetta sul volto di quanti, a bordo della funivia ballonzolante che è stata bloccata giusto un istante prima di lanciarsi nel vuoto, mi hanno visto arrivare correndo con gli sci in una mano, i bastoncini nell’altra, i capelli da pazza e un fiatone che la metà sarebbe bastato (a chiunque, pure a un maratoneta allenato).
Il rodimento di culo che mi permea mi impedisce di provare nuovamente stupore per la visione del ghiacciaio incontaminato che scorre sotto di noi al passaggio della funivia: voglio solo tornare in Italia il prima possibile, sui miei sci e senza dover affrontare ulteriori alterchi con merde transalpine di sorta.
Nel giro di pochi minuti, il mio desiderio si avvera; scendo dalla funivia, mi aggancio gli sci e inizio a spingere come una pazza verso casa, senza starmi a chiedere più di tanto se sono autorizzata a passare dove sto passando. Stavolta non mi fregate, cazzo.
Chiedo solo al primo omino degli impianti che trovo (merda o non merda, ormai non mi interessa più, c’ho pure fame): “Okay qui?”
E quello: “The blue net!”
(Ma un omino che parli italiano, almeno dal versante nostro… Sarà mica chiedere troppo?)
D’altronde, è nota la regola per cui è bene stare attenti a ciò che si desidera perché potrebbe avverarsi… Passano dieci secondi e: “Ma dove cazzo vaiii?”
Ne sento un altro gridarmi dietro mentre sfreccio: e mo’ pure te ti ci metti? Vabbè, ormai rispondo a tutto: “ Sto tornando a Cervinia, prima che sia troppo tardiii!”
“Allora vai, filaaa!”
E non me lo faccio ripetere due volte: inizio a correre a tutta velocità lungo la pista che porta al Plateau Rosa, vedo a valle le bandiere tricolori, sento dal cellulare lo squillo abbinato a mio marito (che, forse, dopo ore, ha iniziato a chiedersi che fine io abbia mai fatto) ma soprattutto posso finalmente godere sotto i miei sci di quella pista vuota e immacolata che vado inseguendo da questa mattina.
Come si suol dire, e vissi felice e contenta.
Solo nel pomeriggio ho scoperto che chi rimane bloccato in Svizzera, per tornare a casa è costretto a pagare 600 € ai taxi del luogo per farsi riportare in Italia. Sarà mica che lo fanno apposta a farti sbagliare pista, impianto e funivia non appena ne hanno l’occasione? Beh, io non lo so, ma se così fosse, di merda transalpina mai soprannome fu più appropriato.