Il secondo giorno di istanza a Milano mi porta a riflettere sui dettagli che differenziano – e molto – la loro metropolitana dalla nostra, riguardo l’annosa e sofferta questione del posto a sedere.
Succede tutto nel giro di un paio di corse: ho deciso di andare a visitare la mostra di Harry Potter, che sta un filo in culonia (anche se per noi della Capitale non c’è nulla in questa città che sia veramente troppo lontano) e, dopo un rapido giro per commissioni che inizieranno da Zara sulla linea gialla, mi sposterò sulla lilla per arrivare a destinazione nei pressi del cimitero monumentale.
La prima constatazione è che, sulla gialla dove mi trovo ora, gli sgabelli situati lungo la banchina per le attese dei convogli sembrano i funghetti dei Puffi. Li vedi lì, tutti in fila: rossi, tondi e piatti, con un’unica zampa nera che, spuntando dal pavimento giallo, sembra proprio un gambo… dai, gli mancano solo i pois bianchi per rendere totalmente credibile la metafora. Ce ne sono così tanti liberi, come fai a non sedertici sopra, con tanto di rincorsa e saltellino preparatorio?
Infatti lo faccio e rimango lì fino a quando – un minuto e dodici secondi più tardi – arriva la metro. Proprio come tutti quelli che erano in attesa insieme a me, mi dispongo in fila a lato di una delle porte dei vagoni (…lo so, a Roma non è prassi, ma qui sì e io non voglio mica sfigurare!) e attendo pazientemente il mio turno per entrare. Talmente tanto pazientemente, che una ragazza dietro di me una volta a bordo mette il turbo e mi ruba con fare rapace il posto a sedere verso cui mi stavo dirigendo.
Neanche a dirlo, appena apre bocca il suo accento tradisce una provenienza da latitudini molto più basse della celeberrima linea gotica, ma non ho tempo per lasciarmi andare a considerazioni sulla faccenda perché una mano sconosciuta mi sta tirando per un braccio.
Ecched’è? Mi chiedo, proprio come faceva Anna Marchesini nei panni di Lucia Mondella su quel ramo del lago di Como (...che, guarda tu i casi della vita, adesso si trova a pochi km da me). Per rispondere all’interrogativo devo togliermi le cuffiette, voltarmi, squadrare la signora che ho di fronte e processare le seguenti informazioni:
- la signora ha cercato invano di chiamarmi per indicarmi il posto libero accanto a lei;
- pur di non farmi perdere l’opportunità, si è presa la briga di strattonarmi il braccio;
- ora che mi sono seduta e continuo a ringraziarla con un sorriso a 64 denti, si schermisce come se non avesse fatto nulla di speciale.
“Viette a fa’ un giro a Roma” le vorrei dire. “Così poi lo capisci perché te sto a ringrazia’.”
Alla fine, però, preferisco lasciarla nella beata e felice ignoranza di certi aspetti truci del mio mondo, che stridono pesantemente con quelli più compiti e rispettosi del suo in cui – almeno sotto la metro – si vive in maniera più facile.
Troppo facile, se vogliamo: vi dico solo che devo rimanere a bordo solo per un’altra fermata, ma mi siedo lo stesso. A sfregio, perché mi sembra davvero un peccato non cogliere la ghiotta occasione che la signora ha voluto offrirmi.
Intanto, si è quasi fatta l’ora di scendere per andare a vedere la mostra di Harry Potter; prima di lasciare il vagone, però, faccio ancora in tempo a vivere l’ultimo paragrafo di quest’analisi comparata tra Roma e Milano sulla diatriba del posto a sedere.
Qualche istante prima di alzarmi, infatti, vedo avvicinarsi un ragazzo che, tra il timido e il titubante, indica con il dito il posto vuoto accanto al mio.
“È libero?” mi chiede a voce bassa. “Posso sedermi?”
“Ma certo!” Gli rispondo io, chiedendomi se per caso il tipo creda di essere a una festa a casa di qualcuno. E forse fa bene, rifletto dopo essere scesa dal vagone: una metro dove vivi quotidianamente scene di educazione e civiltà come quelle che ho appena vissuto io come altro la vuoi definire, se non una festa?!