L’oro di Napoli… a Via Giolitti

Non c’è niente da fare. Certi giorni lo capisci subito che era meglio se te ne stavi a casa sotto le pezze.

Tipo oggi che fa freddo, piove e io devo andare a fare dei giri burocratici per quella famosa pensione che in realtà non prenderò mai.

Così, invece di imbarcarmi su uno dei convogli della linea A che quotidianamente mi portano da Furio Camillo a Ottaviano, vado a prendere il 360, un autobus che collega l’Appio Latino alla zona di Piazza Fiume (Certo, visto che la stragrande maggioranza dei lavoratori della televisione lavora in Prati, sarebbe stata cosa saggia collocare da queste parti il nostro ente previdenziale di riferimento, piuttosto che in culandia di sopra. Ma mi rendo conto che un certo tipo di intelligenza non è di questo mondo e lascio correre).

Mi reco al capolinea e salgo a bordo della vettura in partenza, pronta a conoscere una realtà che non mi è più familiare, visto che sono passati ormai diversi anni da quando prendevo questo autobus per andare in università.

L’ecosistema che trovo è prevalentemente composto di gente con enormi valigie piazzate sui sedili (l’autobus passa per Termini) e l’odore che impregna l’atmosfera è di muschio selvatico misto a napalm (per l’appunto, l’autobus passa per Termini).

Ciò nonostante, riesco a adeguarmi e fino alla fermata di via Giolitti non accade nulla che turbi la quiete sonnolenta delle nove del mattino.

Non appena l’autobus richiude le porte alle spalle degli ultimi passeggeri saliti a bordo, però, appare subito chiaro che la quiete sta per finire.

Un tipo si siede un paio di file dietro di me: sembra la copia sbiadita e un filo più truzza di Miguel Bosé, ma nel momento in cui apre bocca per rispondere al suo cellulare trillante, rivela un cuore misto di Vincenzo Salemme, Alessandro Siani e soprattutto Jenny Savastano di Gomorra.

“Uè uè… amore mio! Tutto buon! …sì …sì …sì …uaaa e fammi parlare però! Agg’ capito, agg’ capito, agg’ capit…”

Passano alcuni, lunghissimi secondi di questa timida schermaglia, prima dell’inatteso disastro totale:

“Uaaa! E mo’ sì che m’hai scassat’ u cazz!
…E t’agg portato in montagna… Propr’ie, che a mme la neve me fa cacare, a mme!
…E t’agg portato a sentire o’ Volo che a mme me fanno schif’, pietà e compassione, a mme!
…E t’agg accattato ’a barca ’e sushi che puzza e a mme me pare ’na strunzata, a mme!
…O vossapè che t’agg dì je a te? Che m’hai sfrant e’ ppall!
…Co i soldi che risparmio do’ sushi pe’ tte, ce vad’ accattà nu cazz’ e psicologo… che tu si pazz! Ma pazza vera… Vafammocca, ja!”

Il tipo attacca e, poco prima di Termini, scende con un sorriso in faccia che la Monna Lisa al confronto era una dilettante. E io sono talmente tanto rapita dalla sua performance che forse non ci vado neanche più a chiedere della mia pensione(male che va, mi faccio dare il numero del suo psicologo, potrebbe sempre tornarmi utile).

(Tratto da una storia realmente accaduta a Luigi A., lettore di “Giulia sotto la metro”.)