school out for ever

School’s out for… ever?

Giugno. Dopo lunghi mesi di spintoni, maledizioni, insulti e scene bibliche gestite con nochalance, ironia e distacco… Beh, lo confesso: mi sono fatta trascinare in un alterco metropolitano.

Quasi in una rissa, direi.

(Lo ammetto, è contro i miei principi, ma stavolta non ce l’ho fatta.)

Il punto è questo: anche se negli ultimi due giorni in metro ho percepito condizioni nettamente migliori che mi hanno spinto a inneggiare alla fine della scuola, oggi — Dio solo sa perché — c’è il panico.

Nel senso che la banchina è piena come la spiaggia di Rimini il giorno di Ferragosto, i vagoni del convoglio in arrivo sono pieni come il Cocoricó di Rimini la notte di Ferragosto e tu ti chiedi: “Ma che la scuola è già ricominciata?”

(Dopo soli due giorni, no. Saranno iniziate le ferie degli autisti dell’ATAC, ipotizzo tra me e me… anche se, ovviamente, non tutti riescono a fare questo pensiero e ora ne sto per avere la controprova.)

Prima di salire sul convoglio, ci penso su non so quante volte. Guardo dentro, vedo se c’è margine di compressione di solidi e fluidi, non ne sono sicura ma provo a entrare lo stesso.

(…sentendomi fortemente in imbarazzo — ci tengo a dirlo — perché da quando ho comprato lo zaino per il computer a prescindere da come lo porti fisicamente occupo molto più spazio di prima e la gente mi guarda malissimo, neanche avessi la peste e abitassi su quel ramo del lago di Como.)

L’operazione riesce in maniera relativamente agevole e mi ritrovo schiacciata tra il vetro e una folla di adulti stressati, una mandria di bambini piccoli, qualche anziano e tanti cellulari connessi a internet per cercare di capire come mai siamo in questo inferno.

(Io continuo a pensare alle ferie dell’ATAC, ma sembro essere ancora l’unica.)

Arrivati a Ponte Lungo, veniamo travolti dalla caratteristica fiumana di persone che dirompono dalle porte in una maniera che manco co’ Hodor alla Barriera.

“…Ah, so’ quelli dell’Augusto”, dice qualcuno alle mie spalle con aria di chi la sa lunga mentre io gli vorrei dire: punto primo, il liceo Augusto sta là fuori e non qua dentro, quindi normalmente a Ponte Lungo la gente scende e non sale; secondo poi, come dicevo poc’anzi, le scuole sono chiuse!

Faccio appena in tempo a terminare il mio sfogo mentale, che nella fiumana di cui sopra distinguo un energumeno statuario e decisamente ben vestito.

È di uno di quelli che ce l’ha scritto in faccia che va più di fretta degli altri, in quanto ha un lavoro evidentemente più importante degli altri, in quanto guadagna sicuramente più degli altri, in quanto lui è lui e noi nun semo ‘n cazzo.

(Come dire, è uno di quelli che ancora non si è fatto entrare in testa che sotto la metro tutta ‘sta solfa perde di significato, perché la metro non conosce di distinzioni politiche e sociali. La metro è come la livella di Totó: quando è ora di morire soffocati come ci sta accadendo ora, con il tuo 7/40 ti ci puoi anche detergere le terga.)

All’oscuro di tutto ció, l’energumeno di prima classe si lancia in uno dei tormentoni più usurati della vita underground: “Fate un passo avanti, gente? Al centro c’è posto!”

Lo ammetto, da maniaca dell’ordine e della funzionalità, di solito sono abbastanza d’accordo con questo tipo di esternazioni: sono sempre incline a credere che le cose (o le persone, in questo caso) possano sempre essere organizzate in maniera più logica ed efficiente. Ma oggi no.

Oggi l’afa, la pressione e il terribile dubbio che le scuole siano ricominciate prima del previsto mi spingono non solo a non concordare, ma soprattutto — cosa che non faccio mai e poi mai — a ribellarmi e a rispondere a voce alta, trasformandomi all’istante in una di quelle creature metropolitane che normalmente sbeffeggio nelle mie cronache.

“Ma quale passo avanti! Qua a stento si respira!”

“Bella, damme retta… Spigni che c’entri!”

“Ne dubito, ma complimenti per la finezza.” Ecco. Apriti cielo.

Non so se mi manda più in bestia la sfuriata dell’energumeno o la pipinara di adulti stressati, bambini piccoli in passeggino, qualche anziano e tanti cellulari connessi a internet di cui sopra.

Vi risparmio lo scambio prolungato di battute al vetriolo, perché è una roba di cui mi vergogno e che ho considerato inutile anche nel momento stesso in cui mi ci sono ingarellata, e salto direttamente all’intervento del terzo attore di questa triste vicenda. Ovvero, un’attrice.

Trattasi di signora di mezza età, rotondetta e con l’occhio vispo, di quelle che ora mi rimette a posto in un attimo perché lei sì che ha capito tutto.

Lei sì che ha capito che il caos di quest’oggi non è dovuto nè all’energumeno imprenditore che è un prepotente del ciufolo nè a me che quest’oggi sono indiscutibilmente una bimbaminkia con lo zainetto che rifiuta di fare un passo indietro. Lei lo sa bene, e infatti ce lo spiega nei dettagli, che la colpa è nell’ordine dei politici, delle tasse, del terrorismo e — dulcis in fundo — del sindaco (che all’epoca dei fatti neanche c’era perché si attendeva ancora il ballottaggio.)

Sostanzialmente, ci illumina con la sua ars retorica specializzata in pipponi qualunquisti perché fatti con argomenti qualunque, avrebbe detto il buon vecchio Trap. Improvvisamente, oltre che all’energumeno mi viene voglia di dare una bella fracca di mazzate pure alla signora, ma evito perché al momento la sapiente amica è impegnata a spiegare a dei signori iberici che è meglio se scendono a Flaminio e non a Spagna.

Ma per andare dove?

Ma che cazzo ne saprà lei?

E soprattutto… dato che quelli già non capiscono la differenza tra l’italiano e lo spagnolo perché pensano che si tratti della stessa lingua ma senza la esse in fondo alle parole, come pretendi di fargli capire che Spagna in questo caso è una fermata della metro e non il loro paese?

(Guarda te se non mi tocca intervenire in lingua per impedirgli di arrivare a Fiumicino a prendere l’aereo, eh.)

Nel momento in cui stiamo per raggiungere Termini, però, gli eventi prendono una piega inattesa e io mi lascio trascinare dal flusso, perché tanto ‘sta giornata è iniziata male e potrebbe finire peggio.

Termini, uscita lato destro: ha luogo il solito balletto indiavolato di gente che sale e gente che scende in cui grazie a Dio la signora se ne va, inoltre per un attimo mi sembra di vedere una mia ex collega cretina che mi ha avvelenato la vita per due anni (non è lei, per fortuna), e poi per miracolo la folla fa allontanare di diversi metri l’energumeno.

Barberini, uscita lato destro: si rompe l’aria condizionata. Una signora — è un’altra ma di fatto per il physique du role e le argomentazioni potrebbe tranquillamente essere la stessa — attacca un pippone identico a quello di poc’anzi, ma se prima qualcuno ha prestato attenzione adesso non se la fila il cazzo di nessuno perché chi la vedrebbe due volte di fila una puntata della stessa telenovela? Eddai.

Spagna, uscita lato destro: la metro inizia pian piano a svuotarsi ma, inspiegabilmente, nel carosello delle entrate e delle uscite io finisco sbalzata fuori dalla porta. Ci sarebbe da tirar giù un crostone per l’incredulità, ma in questo momento la necessità di risalire a bordo è maggiore dell’impeto iconoclasta e blasfemo. Mentre riguadagno il mio posto, vedo i signori spagnoli di poco prima scendere e dirigersi verso le scale mobili. A Spagna, e non a Flaminio.

(A signó, te l’avevo detto io che era tutta fatica sprecata… Anzi, ringrazia il cielo che si sono limitati alla Piazza e non alla nazione intera: chè io li conosco quelli, davvero potevano finire a Fiumicino.)

Infine, mi rendo conto che l’energumeno non c’è più; probabilmente è sceso a Barberini, ma il sollievo di constatare la sua assenza si confonde con il dispiacere di non averlo potuto mandare affanculo un’ultima volta.

Flaminio, uscita lato destro: calma, silenzio, quiete. A bordo non c’è più nessuno dei protagonisti, sembra non sia mai successo nulla, anzi sembra che le scuole siano chiuse per davvero.

Lepanto, uscita lato sinistro: nonostante la pace recuperata, il mio stordimento è ancora molto forte ed evidente.

(Per darvi un’idea, mi sono dimenticata del cambio di lato destro/sinistro e sono rimasta impalata davanti alla porta chiusa con la neanche tanto velata attitudine di chi si vuole buttare sui binari.)

Ottaviano uscita lato sinistro: imbrocco la porta giusta e finalmente scendo, catapultata in mezzo a uno sciame di giapponesi diretti sicuramente verso il Vaticano, con la guida turistica e le macchine fotografiche al seguito.

Dopo tutto quello che mi è successo nell’ultima mezz’ora, mi lascio trascinare inerme, con una sola preghiera, espressa a voce neanche tanto bassa: “Amici nipponici, portatemi via con voi… Chè da una giornata come questa solo San Pietro mi può salvare. E con un miracolo, oggi mi ci vogliono direttamente le chiavi del Paradiso.”