Aveva gli occhi fissi

Con questo racconto, Ypos si aggiudica il quarto premio e il premio per il miglior racconto ambientato in metro di FÈRMATE 2020, il concorso letterario per viaggiatori metropolitani sull’orlo di una crisi di nervi indetto da Giulia sotto la metro.

Non avevo nessuna voglia di prendere la metro.

A dirla tutta non ho mai voglia di prendere la metro, tantomeno a Termini: tre rampe di scale mobili da scendere, l’incrocio con i passeggeri della linea B, gente che ti urta, gente con mascherina abbassata, secchi rossi e blu come bocche sguaiatamente aperte a raccogliere le ultime gocce di acqua piovana cadute una settimana prima, guardie giurate che l’unica cosa che hanno giurato e di non fare praticamente mai un cazzo, salvo di quando in quando prendere a calci in culo la zingarella 12/13 enne ladruncola e sfacciata, musica di sottofondo che non metterebbero nemmeno nel manicomio di Qualcuno volò sul nido del cuculo

Ma dopo 8 ore in ufficio, qualche pratica, una quindicina di igienizzazioni delle mani, due chiacchere col collega, fotocopie gualcite di milioni di chiacchiere fatte in più di 30 anni di servizio, come si fa a trovare la forza di affrontare 4,5 km a piedi per tornare in sicurezza a casa?

In fondo, pensi, basta stare attenti.

Dunque mi piazzo la mia fida FFP2 di giornata e affronto il rischio.

Prima rampa: bene, hanno tutti la mascherina.

Seconda rampa: e vai! Dalla metro B non arriva nessuno.

Terza rampa: ok, siamo pochi.

E lei arriva, bianca e accogliente come una grande ambulanza che ti porta a casa, spalanca generosamente le sue porte e ti accoglie.

Entro e, dopo aver gioiosamente constatato che siamo in pochi, mi acquatto nell’angolo vicino alla porta: ricambio d’aria assicurato ad ogni fermata e soprattutto, se qualcuno non ha la mascherina, posso scendere in fretta.

(Lo so, ragiono da vecchio ipocondriaco, terrorizzato da un virus stronzo che più stronzo non è possibile. Si, ragiono proprio così: e allora?)

Sono tranquillo e pronto ad affrontare le sette fermate (circa 10 minuti di tempo di percorrenza, pochi anche per lo stronzo) che mi separano da casa. Guardo i miei eroici compagni di viaggio, solidarizzo mentalmente con loro. Tutti stanchi e preoccupati, chi legge, chi guarda il cellulare chi sonnecchia. Tutti con la mascherina, pezzetto di tessuto che ci rende anonimi fratelli e complici. Quasi tutti.

Seduto a meno di tre metri da me c’è un signore con la mascherina che gli copre solo la bocca, celeste evidenziatura sotto un naso non proprio minuto. Magro, capelli brizzolati e occhi socchiusi, freddi e fissi come quelli di una statua mal riuscita.

Sua dirimpettaia una signora corpulenta, afflosciata sul sedile di fronte alla statua, mascherina indossata correttamente.

“Scusi, gentilmente potrebbe alzarsi la mascherina a coprirsi il naso?”

Gli occhi della statua brizzolata e nasuta s’illuminano, un po’ come a Klaatu il robot gigante di Ultimatum alla Terra che  – quando si destava e gli s’illuminavano gli occhi – stava per succedere qualcosa di terribile a noi poveri terrestri.

“FATTI I CAZZI TUOI, QUESTA MASCHERINA MI SOFFOCA, NON LA PORTO PERCHE’ E’ CONTRO LE LIBERTA’ PERSONALI E SE VOGLIO LA TOLGO!”

…e se la toglie!!!

La signora finisce di afflosciarsi e tenta una impercettibile e laconica replica.

Io, nel mio angolino di sicurezza, avrei avuto mille ragioni per scendere facendomi gli affari miei: l’età, l’ipocondria, la stanchezza etc etc.

Ma istinto e ragione spesso ingaggiano lotte velocissime e il vincitore di tali istantanei conflitti non si sa bene chi sia, una sorta di indeterminazione quantistica nel settore decisionale della nostra mente che ti porta fare cose che di solito, praticamente non fai.

Anzi, non le fai proprio mai.   

Compio i pochi passi che mi separano da Klaatu e con una voce tra l’ispettore Callaghan in “Coraggio… fatti ammazzare” e il Bufalo in Romanzo Criminale, intimo: “Mettete ‘sta mascherina, ‘a testa de cazzo.”

Ora, Clint Eastwood supera il il metro e novanta e ha gli occhi azzurro ghiaccio, il Bufalo ha una bella faccia da criminale, mentre io scavalco di poco il metro e sessanta e riesco ad essere aggressivo quanto la Pimpa.

Dunque mi ritrovo ad essere altro da me.

E di fronte ho Klaatu molto incazzato.

Quello che succede dopo è un fuoco incrociato di insulti della peggior natura nel quale sono stati menzionati i miei e i suoi antenati, discutibili abitudini sessuali e aggettivi che farebbero bella figura in un filmetto d’azione americano di terza categoria.

Un crampo allo stomaco mi ferma: ho raggiunto il mio limite, se lo supero passiamo sul piano fisico, ma il conflitto quantistico riavvolge il nastro. Taccio, Klaatu ha rimesso la mascherina ma solo sulla bocca. Guardo la signora, ormai completamente sgonfia. Lei mi guarda e nei suoi occhi c’è la mia stessa frustrazione, mista ad una sfumatura di gratitudine. Il resto dei passeggeri torna a leggere, guardare il cellulare, sonnecchiare.

Klaatu ha di nuovo gli occhi fissi e la luce spenta.

La metro, gentilmente, mi sputa alla mia fermata.

Arrivo a casa.

Mi siedo sul divano con la sigaretta accesa e un gran mal di testa.

Peccato, lo avrei dovuto gonfiare di botte.

Peccato ci sia gente così.

Peccato non fare Callaghan di cognome.

Peccato, ma meglio così.

Peccato, c’è un virus e la gente muore.

Peccato.