Nel bel mezzo di un vagone affollato in cui cerco disperatamente di annegare, mi incuriosisce il vociare un po’ sguaiato ma simpatico di una comitiva di adolescenti. Li trovo da manuale: firmati Hollister, con i capelli alla Errol Flynn (o, come più prosaicamente direbbero loro, cor doppio tajo de Florenzi), i tatuaggi e il dilatatore ai lobi delle orecchie. Inizio ad appassionarmi a quello che dicono, perché da subito mi sembra che ne valga la pena.
“Ma che cazzo ci fai co’ queste? Non vale manco la pena che ti metti a rollare!”
Guardo meglio: uno di loro ha in mano dei pacchetti di cartine e non credo che il problema sia la marca, ma le dimensioni (…che, come affermava il trailer di Godzilla nel 1998, contano sempre); il tipo che pensava di mostrare agli amici chissà quale ritrovato della scienza e della tecnica viene in realtà messo in mezzo e deriso dai suoi compari.
“Ma con quelle non ci fai manco ’na bandiera!”
“Seee! Fai tutto er fico che te sei comprato er truzzo e poi me rolli co’ sti fazzolettini?”
“Ma che non lo vedi che la colla è troppo sottile? Se ce metti l’erba te se apre tutto!”
Ora: quanti anni avranno questi baldi giovani d’oggi? Quattordici? Quindici? (Signora mia, non c’è più la mezza stagione…)
Ecco, per quanto mi sforzi di apparire anticonformista, devo ammettere che io non solo alla loro età ero convinta che i paradisi artificiali si trovassero solo nel libro di letteratura alla pagina di Baudelaire ma – se pure avessi avuto le idee più chiare – non mi sarei messa certo a dibatterne a squarciagola in metro.
Questi qua invece hanno la scioltezza e il savoir faire di un cartello di spaccio d’erba internazionale, con annessi giri di prostituzione e omicidi plurimi.
Pausa pubblicitaria all’altezza di Barberini: un sacco di gente sale, un sacco di gente scende.
Al rientro in onda, l’argomento di conversazione dei baldi giovani cambia totalmente, la vittima del gruppo invece no. È sempre lui, il giovane Florenzi dalle cartine troppo piccole, colpevole di aver detto qualcosa che io non ho sentito, ma che evidentemente avrebbe fatto meglio a tenere per sé.
“Aho! Ma allora sei popo ’n cojione! O t’azzitti o te pettino a furia de cazzotti!”
(Eh?)
“Sì, davero… ce pensamo noi, a quer cazzo de caschetto che te voi fa’ cresce!”
(Eeh?)
“Sì, e poi te schiaffamo la testa dentro ar cesso… ma no a uno normale, a uno de quelli co’ la tavoletta pelosa anni ’80… uno de quelli che fanno miao quando pisci!”
(Eeeh?)
Se da un lato non riconosco la descrizione delle tavolette da bagno che usavamo trent’anni fa (onestamente, io “miao” non l’ho mai sentito… ma forse non mi avrebbe infastidito), dall’altro mi chiedo cosa abbia fatto di male questo poveretto per meritarsi cotanta zuppa di improperi.
Come spesso capita, la risposta non tarda ad arrivare.
“Aho accanna! Te lo dico n’artra volta e poi basta! Non lo puoi lasciare lì… ché te lo inculano! Lo vuoi capi’ che quello gli zingari lo usano come antenna der televisore?”
Purtroppo non vedo l’oggetto di cui stanno parlando, dunque mi rimane una fortissima curiosità di sapere quale marchingegno trasmette la TV in casa dei rom. Di nuovo, però, non posso dedicare troppo tempo ai miei dubbi.
Alla fermata di Repubblica, vedo entrare un gruppetto dai vestiti stravaganti e dalla parlata incomprensibile.
Tempo un istante, ecco arrivare il noto grido che saltuariamente risuona per i vagoni della metro romana: “Occhio ai portafogli! Occhio a quella col cappello blu!”
Manco a dirlo, quella col cappello blu fa parte del gruppetto che aveva attirato la mia attenzione. E grazie ar cazzo che non capivo la loro lingua: sono rom… ovvero il popolo che per vedere la televisione utilizza l’oggetto misterioso del pargolo sfigato. Florenzi, insomma.
Il quale, però, non c’è più.
(Non so se sia un caso o se davvero Repubblica sia la loro fermata, fatto sta che i fanciulli tossici se la sono data a gambe non appena sono arrivati i rom di cui sopra.)
Questi tra l’altro, ignorando sfacciatamente un tipo che dal di fuori del vagone sta continuando a lanciargli contro improperi, se la ridono della grossa con l’aria di chi ha appena sottratto la marmellata dalla dispensa. Strano, eh? Ci sarebbe da riflettere.
Per la terza volta di fila, non faccio in tempo a trarre le mie conclusioni (oggi il tempo scorre in fretta, sotto la metro…) che vedo irrompere dalla porta centrale quattro persone in divisa.
È la prima volta che vedo degli SWAT con la sigla ATAC cucita sul taschino, quindi abbiate pietà di me ma, se escludiamo un brillante travestimento di gruppo per il carnevale in corso, non saprei come altro definirli.
Dei Marines non hanno solo l’abbigliamento, ma anche il portamento: entrano schierati in una falange macedone che, se solo avessero gli scudi, all’Alexander di Colin Farrell gli farebbero un baffo.
Spintonano gente a destra e a manca, circondano il gruppetto di rom, abbrancano la sospettata con il cappello blu e iniziano a urlare in maniera talmente convincente che non serve neanche impostare l’audio in lingua originale.
“Presa! E mo’ hai finito de rompe er cazzo!”
“Tutti fuori, ché mo’ a voi ci pensiamo noi!”
(La scena è talmente d’impatto che nessuno a bordo del vagone può rimanere indifferente.)
“Mi perdoni, avvocato, la devo richiamare… stanno arrestando degli zingari.”
“No, non scendo alla prossima… scendo subito, visto che qui c’è l’esercito.”
“Oh finalmente, giustizia è fatta! Ma cor propano je dovrebbero da’ foco… Cor propano!”
Mente il convoglio riparte, l’intero vagone bonificato saluta con fare entusiasta i Marines dell’ATAC intenti a scortare fuori i ragazzi rom. Il momento, però, dura poco.
Una fermata e siamo a Termini, schiacciati tra una muraglia umana che vuole a tutti i costi entrare e una che cerca disperatamente di uscire.
Partono subito i primi insulti, le battute di insofferenza e le constatazioni retoriche di circostanza, sospese tra il “Signora mia, non c’è più la mezza stagione” e il “Piove, governo ladro!”.
Ma come, amici? Avete già dimenticato il corpo d’assalto senza nome che applaudivate entusiasti per l’arresto dei rom colpevoli? Siete già pronti a inveire contro il sindaco, la giunta e nonno in carriola (il tutto senza ovviamente muoversi di un passo per fare posto a chi entra e ritardando di conseguenza la chiusura delle porte)?
Eh… poi però se dicono che a noi romani non ci sta mai bene niente, hanno ragione.
Il mio senso civico indignato tuona silenziosamente, i miei occhi inquisitori rilucono di disprezzo, il mio sopracciglio alzato se la canta e se la suona, ma ci pensa un signore a rimettermi a posto come si deve.
“E che vóle, signorì… sembra che chissà che hanno fatto! Sembra che era Guerre stellari! E invece che non ce lo sa come finisce? Che li portano su per strada e li lasciano andare, ecco come finisce! E noi qua a fa’ la muffa…”
Ecco perché amo la mia città: per i suoi abitanti, che si esaltano quando serve, che si incazzano non appena ne hanno l’occasione, ma che mai e poi e mai ti daranno la soddisfazione di farsi trovare impreparati.
Il romano lo sa sempre prima.
Al romano, non lo freghi.
Al romano, come al cavaliere nero, nun je devi cacà er cazzo.