giardino sotto la metro

Un giardino sotto la metro

Sono lontana da casa, tanto. Forse troppo. Nel senso che, per una di Roma Sud, perdersi a Primavalle equivale a vagabondare in un’altra galassia. Orientarsi è impossibile, figurarsi tornare a casa: non capisco neanche dove sia la fermata della metro! 

Alle otto precise, però, devo essere dall’altra parte della città a una di quelle cene dove il ritardo è l’ultima cosa da portare. E mi viene da piangere.

Vorrei fumare una sigaretta per placare il nervosismo, ma purtroppo ho smesso… come risollevarsi da questa impasse?

L’immaginazione, fedele alleata di una vita intera, viene in mio soccorso nel momento del bisogno: all’improvviso, la Valle nella quale mi trovo non è più la Prima… ma l’Ultima.
L’Ultima Valle rimasta verde, incontaminata, pura.

Con un briciolo di speranza, me la lascio alle spalle e inizio a seguire un sentiero, timidamente emerso tra fronde e rami di un giardino che sembra estendersi fino all’orizzonte, forse oltre.

Addentrandomi nel fitto della vegetazione, scopro che questo salvifico sentiero non è affatto lastricato di mattoni gialli, come talvolta avviene in Kansas o giù di lì.

È piuttosto un intreccio misterioso e primordiale di stazioni metropolitane e flora incontaminata, che cresce e si avvinghia a inferriate, cartelli e balaustre. La natura sembra perfettamente al suo posto, come se ci fosse sempre stata anche quando in questo mondo regnava ancora la civiltà. E allora vado avanti nel mio percorso verso casa.

Tutto è così incontaminato che quasi mi convinco: linea metropolitana e natura sono fatte l’una per l’altra…

Prati di ciclamini in quel di Battistini, inebriante profumo di camelia vicino a Valle Aurelia, una distesa di gerani proprio ai Musei Vaticani (fermata Cipro, per chi non lo sapesse).

Troneggia il lilla zafferano davanti al cartello Ottaviano, un mare di rosso amaranto si stende su Lepanto (o Lepànto, come dicono gli stranieri).

Flaminio incontro un fiore nuovo chiamato stramonio, a Spagna metto in fuga una mandria di mucche di campagna, a Barberini raccolgo un mazzetto di ombrellini.

Termini, che dei treni sarebbe la stazione, mi attardo a giocherellar con un soffione. Chiudo gli occhi, esprimo un desiderio: “Ti prego, fa’ che io arrivi in tempo a quella cena… o, se non altro, almeno fa’ che io rimanga per sempre in questo incanto senza pena (che forse è anche meglio)”.

Quando arrivo alla fermata di Vittorio, mi attira un cespuglio di orchis morio (in pratica, la comune orchidea); poi ricordo chiaramente che quello de I promessi sposi era Manzoni, mentre fuggendo da uno sciame di calabroni giungo alla fermata a lui dedicata.

La mia corsa termina solo a Re di Roma, dove incontro un’ape sorniona; non raccolgo un invitante fungo, che spunta da una macchia a Ponte Lungo; potrebbe essere velenoso, sì, ma non spinoso, come quel grosso armadillo che scorrazza attorno alla fermata di Furio Camillo.

Sembra di essere in Olanda, a Colli Albani: un’immensa distesa di tulipani che arriva fino al Quadraro: lì dietro la fermata scopro di colpo le bacche del gigaro chiaro.

Per giocare a m’ama non m’ama, a Numidio Quadrato colgo una margherita di prato e la mia fame improvvisa si calma con una fragola, colta a Giulio Agricola.

Qualche graffio me lo lascia un malandrino arbusto in cui m’impiglio passando per Subaugusta, ma il dolore svanisce subito grazie al soave profumo di quei lillà, cresciuti all’interno degli studi di Cinecittà.

Ed è il tripudio che mi accoglie, quando finalmente arrivo ad Anagnina: bubbolina, erba cipollina, latte di gallina, persino una stella alpina!

Non credo ai miei occhi dinanzi a questa distesa sconfinata di vegetazione, ma soprattutto all’idea che non sia affatto Anagnina la mia destinazione…
La mia cena era a Furio Camillo! 

Anche se riuscissi a tornare indietro, non arriverei mai in tempo.
E allora resto qua a crogiolarmi in questo mare profumato, in questi urbani campi elisi… come il poeta inglese in mezzo a una moltitudine di dorati narcisi.