PRIMO COMANDAMENTO:
IO SONO LA METRO, NON AVRAI ALTRO MEZZO ALL’INFUORI DI ME
Mattina di fine dicembre, Termini.
Sono arrivata qui con un taxi e sto per prendere un treno per Trento, quindi oggi è ufficialmente uno di quei miei rari giorni senza metropolitana e la cosa mi mette piuttosto di buonumore. Solo che, qualche attimo prima che il treno inizi a muoversi, a bordo sale tutta la Campania.
(Giuro, non sto esagerando: secondo me, se qualcuno va a Napoli adesso secondo me non ci trova nessuno.)
Non so per quale emotivo, ma l’intera compagine partenopea cade vittima di una irresistibile attrazione nei confronti del mio zaino, correttamente riposto sulla cappelliera sopra la mia testa: per primo arriva un ragazzo che lo spinge più in là, solo per metterci il suo e senza naturalmente chiedere niente a nessuno e tantomeno a me, che per magia inizio a sentirmi come a bordo della cara metro.
Non faccio in tempo a farglielo notare, però, perché lo spazio vuoto che adesso separa il suo zaino dal mio viene invaso dalle numerose valigie appartenenti a una famiglia di cinque persone. Si passano l’un l’altro borse e borsette in una goffa catena di montaggio, nel tentativo di collocarle una dopo l’altra sopra la mia testa. Tutte quante. Nello stesso punto.
Ovviamente non c’entrano ma loro continuano a spingere, rovinandomi spesso addosso (e noncuranti dei danni che stanno procurando alla mia cervicale), sperando probabilmente in una dilatazione spontanea dello spazio circostante che ovviamente non avviene.
Quando se ne lamentano ad alta voce, “Uaglio’, accà ‘n ce cape ‘nu cazz’…”, rispondo loro con l’unica spiegazione possibile: “Deve essere un errore di progettazione del treno, è evidente.”
Per ovviare all’impasse, decidono di far slittare ancora più avanti il mio zaino e altri accanto: nel giro di pochissimo, l’operazione fa cadere da dio solo da dove una di quelle scatole di latta che da vuote si riempiono dell’occorrente per il cucito della nonna e che quando invece sono piene di biscotti e ti cadono in testa ti fanno parecchio male.
“AHIA!” Urlo e – lo confesso – anche un po’ più di quello che il mio dolore giustificherebbe, ma lo faccio per vendicare la mia anima che si sta per rompere a minuti.
(E con anima sono stata gentile. Lo confesso: sto iniziando a desiderare di essere in metro.)
Non ottengo scuse di sorta. Se non altro, però, l’incidente fa venire all’allegra famigliola un cruciale dubbio: “Guaglio’, ma ‘ste borse nun so’ mica ‘e nostre: mica ‘e putemm’ spost’ da ‘n goppa abbasc’…”
Riflessione più che corretta, eppure – come il peccato – si dice ma non si fa: la signora che ha parlato rimane inascoltata e tutti i suoi parenti continuano a strapazzare le borse di chiunque, sempre nell’intento di incastrare le proprie in una cappelliera dalle dimensioni chiaramente inadeguate.
Io non ci penso neanche a far presente ai Savastano de’ noantri che sarebbe il caso di arrendersi e di riporre le loro borse altrove: continuo a rimpiangere la metro e lascio volentieri l’onore a una signora del nord che, dalla fila accanto dov’è seduta con la figlia, dà il via a un indimenticabile quarto d’ora al fulmicotone che proverò a raccontare nel modo più realistico possibile.
La signora alza la voce: “Dov’è il mio zaino? Perché lo avete spostato?”
I Savastano: “Lo abbiamo tolto perché altrimenti le nostre valigie non c’entravano…”
La signora: “Ma che maniere sono? Rimettetelo subito dov’era!”
I Savastano: “Ci dispiace, signora bella, non possiamo: mo’ ci stanno le nostre valigie.”
La signora: “Rimettete il mio zaino al suo posto o chiamo il controllore!”
(Non accade nulla. La signora sbuffa imperiosamente e si volta per andare di gran carriera a protestare dal controllore di cui sopra.)
I Savastano: “Uh… Maronna mia, che esagerazione! Il controllore! Ma state pazziann’, signora? Su, facitela finita e tornate qua ché un posticino allo zainetto suo mo’ glielo troviamo!”
La signora: “Non ci penso proprio. Ora l’avete spostato e là resta!”
(Signora, ma che fa? Mi si offende con ripicca? Ma le pare il momento?!)
I Savastano: “Eh no, signora bella… mo’ che abbiamo tolto la nostra valigia, voi non vi potete mica permettere di fare la cafona a questa maniera! Ja’, rimettete lo zaino dove stava!”
La signora: “Ah ecco: ora la cafona sono io! Ma guarda un po’… Ringraziate il cielo che ho una bambina piccola qui con me, altrimenti ve lo spiegavo per bene chi è il cafone qui!”
(Dal tono con cui proferisce la minaccia, mi viene da pensare che tra lei e la numerosa famiglia quanto a inciviltà sarebbe una dura battaglia, che non avrebbe nulla da invidiare a quelle che si svolgono ogni giorno sotto la metro.)
La signora bella si appresta a uscire di scena, ma prima di mettersi a sedere ci tiene a redarguire la figlia che – datele torto, considerato l’ultimo quarto d’ora – si sta muovendo in maniera un po’ troppo poco rispettosa dei suoi vicini.
“Amore della mamma” le fa con voce al limite dell’isterico. “Per favore, non dare i calci a queste ragazze!”
La bambina la guarda con l’aria di chi le darà retta ancora meno dei Savastano de’ noantri, ma io gliene sono profondamente grata perché dà la possibilità alla madre di pronunciare la seguente frase: “Scusatela, ragazze. Non è indisciplinata, è solo figlia di genitori separati… il che rende la rende molto più sensibile degli altri. A volte, credo che possa essere una bambina indaco.”
E su questa, non posso far altro che scolpire nella roccia il primo dei miei 10 comandamenti metropolitani:
NON AVRAI ALTRO MEZZO AL DI FUORI DELLA METRO
(E ti credo, visto quello che capita sui treni…)