Con questo racconto, Silvia Valentini si aggiudica il terzo premio e il premio per il miglior racconto ambientato in autobus di FÈRMATE 2020, il concorso letterario per viaggiatori metropolitani sull’orlo di una crisi di nervi indetto da Giulia sotto la metro.
Esistono al mondo parole che aspettano di essere create. Del resto, l’italiano è una lingua in continua evoluzione e se l’Accademia della Crusca ha valutato di inserire “petaloso” nel proprio vocabolario, non potrà fare eccezione per la parola che vorrei proporre io: Atac-umano.
Credo che anche chi non vive a Roma abbia sentito parlare dell’Atac e di quanto riesca a rivoluzionare la vita di chi la frequenta. Penso quindi che una parola in suo onore meriterebbe gli allori di un vocabolario e, se permettete, vi spiegherò il perché.
Quello di martedì poteva essere un normale viaggio in autobus. Normale, pur con le difficoltà legate al Covid, al distanziamento sui mezzi, alle mascherine funzionali all’esterno e improvvise maschere da sub appena si sale su una qualunque vettura, ai guanti di lattice che ormai indosso sui mezzi ma che mi fanno assomigliare a un dentista sgangherato. Normale, tutto ciò nonostante.
Le premesse per un tranquillo viaggio in autobus c’erano tutte: prime ore del pomeriggio, quindi orario praticamente morto nel quale in giro ci siamo io e qualche turista che evidentemente si è perso, altrimenti non si troverebbe lì; pochissima gente in giro, per la motivazione di cui sopra; traffico quasi inesistente, sempre per la motivazione di cui sopra.
Mi accingo ad attendere il mio autobus alla fermata di fronte all’Ara Coeli, sapendo che avrei potuto addirittura scegliere tra due autobus, perché entrambi potevano fare al caso mio. La curiosa nota di ottimismo che mi pervade mi fa dimenticare, non so se scientemente o meno (ma, da pendolare incallita, opterei per la prima opzione), il fattore Atac-umano.
Per precisione e da frequentatrice dei mezzi pubblici, classe umana a sé, penso che questa parola vada letta e pensata come un unico concetto. D’altronde, Platone non parlava di “iperuranio”? E allora noi, filosofi dei mezzi pubblici (perché l’unica, lo sappiamo tutti, è prenderla con filosofia), potremo ben parlare di fattore “Atac-umano”.
Certo, suona molto simile alla parola “attacco”, ma forse qualche assonanza anche reale c’è.
Sembra che la fortuna continui a sostenere il mio viaggio! Uno dei due autobus candidati arriva dopo cinque minuti e io, con l’umore ormai alle stelle, salgo e trovo anche posto a sedere, perché sull’autobus saremo in sette persone al massimo.
Ma il fattore Atac-umano è in agguato.
L’autista ingrana la marcia e io faccio appena in tempo a reggermi al sostegno di fronte al mio posto, che l’autobus schizza via con entusiasmo da Ferrari. I miei compagni di viaggio e io rischiamo di crollare rovinosamente sul pavimento dell’autobus, ma l’incidente sembra per il momento scongiurato. Vabbè, penso, sarà l’ebbrezza di non trovare traffico ad aver ispirato questa partenza sprint.
Il problema, come a questo punto avremmo potuto immaginare, è che a essere sprint non è solo la partenza.
Il percorso fino alla Bocca della Verità vola in un minuto, allietato dallo sferragliare dolorante dell’autobus sui sampietrini, da qualche buca fantasma che però centriamo in pieno (e che a tutti porta alla mente, e non solo, ciò che hanno mangiato a colazione) e dalle poche fermate a cui l’autobus si ferma, perché sì, di passeggeri in attesa alle fermate ce ne sono pochissimi.
Le emozioni forti però arrivano all’Aventino: imbaldanzito dal semaforo verde alla Bocca della Verità, l’autista parte felice e imbocca la salita del Roseto comunale. Si sentirà Buzz Lightyear quando grida: “Verso l’infinito e oltre!”? Sta di fatto che questa frase avremmo potuto gridarla noi, cosmonauti delle due del pomeriggio, quando l’autobus si lancia sulla discesa che porta alla FAO. Tutti oscilliamo e beccheggiamo sui nostri sedili, rischiando di cadere per terra o di volare direttamente nella cabina dell’autista, magari per far due chiacchiere.
Il tragitto dalla FAO al semaforo di porta Metronia sfila via come su un treno ad alta velocità, ma almeno, essendo il percorso in piano, si rischia al massimo di cadere in avanti e non di venire disarcionati dal proprio sedile come a un rodeo.
Da porta Metronia, il percorso si fa meno lineare: vuoi perché ci troviamo in un quartiere, vuoi perché persino l’autobus non ce la fa più, l’autista rientra nei canoni di guida ammessi dalla legge, più o meno.
La mia fermata è ormai vicina: anche oggi sono riuscita a tornare alla base tutta intera, con qualche certezza in meno, ma anche senza fratture.
Per non rischiare, mi alzo dal mio posto alla fermata precedente rispetto alla mia. Spero di rimettermi lo zaino senza essere presa alla sprovvista e catapultata per terra da una ripartenza imprevista e, soprattutto, voglio potermi aggrappare agli appigli dell’autobus senza fare la proverbiale frittata, proprio quando manca pochissimo alla meta.
Come era prevedibile, l’autista imbocca via Satrico con la gioia di una valchiria imbizzarrita e, mentre io cerco di non franare a terra, arriva al semaforo dell’incrocio, che per il sollievo di tutti, è rosso.
Tiro un breve sospiro di sollievo: ci siamo quasi, tra poco potrò scendere da questo Aquilante ubriaco. Più salda sulle gambe, gongolo tra me: l’autobus è finalmente fermo. Forse anche un po’ troppo, tutto sommato.
Quando le luci si spengono, mi assale un tremendo sospetto: ancora il fattore Atac-umano?!
Già. Perché, ora è chiaro, l’autista ha spento l’autobus e al semaforo rosso, pronto ai blocchi di partenza, il destriero di noi poveri Brancaleone urbani è immobile e silenzioso.
A conferma degli sguardi sconfortati e perplessi che ci scambiamo tra passeggeri, l’autista esce dalla cabina con nonchalance e… con una bottiglietta d’acqua.
Apre la propria porta, scende e, nella tranquillità delle due e mezza del pomeriggio, si avvicina alla fontanella sull’angolo del marciapiede dell’incrocio, beve in tutta serenità e riempie fino all’orlo la bottiglietta.
Con calma, ritorna verso l’autobus, risale e si siede al posto di guida.
Nel frattempo, io sono sempre rimasta appesa agli appigli dell’autobus, prima temendo ancora per la mia incolumità e passando poi allo sbigottimento totale. Sconfortata, mi volto verso una coppia di signore, sedute vicine, che durante il viaggio avevano tentato alla bell’e meglio di reggersi l’una con l’altra.
Ci scambiamo uno sguardo sempre più perplesso e, gradualmente, sempre più divertito.
Alla fine, mentre l’autista risale sull’autobus e riaccende il motore, una delle due signore si rivolge all’altra e le dice: “Eh beh, d’altronde la sete è sete!”. Il commento finale suscita l’ilarità di tutti noi passeggeri e, mentre l’autobus riprende la sua corsa, ci facciamo una breve e contenuta risata.
Ebbene, è evidente che il fattore Atac-umano non è proprietà unica degli autisti o di chi nell’Atac lavora, ma dopo anni di frequentazione diventa una caratteristica necessaria anche per chi frequenta l’Atac da passeggero, spesso sbigottito, a volte furioso, sempre divertito.
Proponiamo dunque l’aggettivo “Atac-umano” come nuovo conio italiano! Magari non sarà per sempre, ma sicuramente l’Atac è tutti noi.