Siamo un popolo di razzisti del cavolo o ci disegnano così? Alla metro A l’ardua sentenza.
Ore 19 di un normale giorno lavorativo, salgo a Ottaviano con tanta voglia di tornare a casa perché – tanto per cambiare – sono stanca morta. Il vagone è gremito di persone nella mia stessa condizione psicofisica, che si stringono le une alle altre nella speranza di non cadere, perché nel frangente è molto difficile aggrapparsi a qualcosa.
Ogni volta che le porte si aprono, la situazione si fa critica perché quelli che vogliono entrare non riescono a sfondare la barriera di quelli che vogliono uscire e viceversa. Inutile cercare di farli ragionare, spingono e basta. Prima o poi, penso, qualcuno ci resterà secco e allora sì che, forse, se la pianteranno.
In prossimità della fermata di Barberini, si palesa il genio della situazione con una brillante pensata, che poi è anche un grande classico della tradizione metropolitana: “Scende alla prossima?” inizia a chiedere il buon (spero io) uomo, avvicinandosi alla porta un passetto alla volta e fendendo la folla come un grissino nel tonno Rio Mare, via via che le persone dimostrano la loro volontà di rimanere a bordo.
Alcuni si spostano, altri no: si tratta di quelli che sono appena saliti a Spagna, tra cui spicca un ragazzo indo-bengalese (purtroppo non mi risulta mai facile riconoscere l’etnia a prima vista) che è arrivato per ultimo, tutto trafelato. Non ha potuto lasciare il passo al buon (continuo a sperare io) uomo come almeno altre quattro o cinque persone insieme a lui, e come loro barcolla a ogni scossone e fa quel che può per non calpestare nessuno.
Eppure il buon (…mmm) uomo è a lui che si rivolge a voce alta e a brutto muso: “Oh, ce l’ho co’ te! Devo scenne’ alla prossima, te levi dar cazzo?”
Ha tutta la mia solidarietà, questo ragazzo che con aria sospesa tra il “mi prendi in giro?” e il “ma vaffanculo!” cerca un modo dignitoso per rispondere. Il buon (seh… ciao córe!) uomo, però, non gliene dà il tempo: “Oh, devo passà, lèvete! E poi nun se entra dalla porta centrale, lo sai, sì?”.
Prego?! No, aspetta. Fammi capire bene. Abbiamo appena detto che sono almeno cinque le persone che ti separano dalla porta, caro il mio (ex) buon uomo, e tu te la prendi proprio con lui? Con il povero indo-bengalese? Ma soprattutto: che cazzo c’entra la porta centrale? Quella regola vale sull’autobus, mica sulla metro… anche perché la metro è lunga, pretenderai mica che in mezzo a ’sto casino ci mettiamo a contare le porte, per capire quale sia quella perfettamente al centro? Vorrai mica che facciamo come i bambini con i tasti del pianoforte quando imparano qual è il do centrale? Ma sarai mica fuori di zucca?
Mi sa che lo pensa pure l’indo-bengalese, che infatti rimane allibito senza proferire verbo: si defila e lascia scendere il tipo, prima che lui decida di mollargli un manrovescio, dio solo sa perché. Ok, 1-0 per chi dice che siamo razzisti!
Andiamo avanti, ché nel frattempo siamo arrivati a Termini: altra fiumana di gente che scende, altra fiumana di gente che sale, tra cui un signore arabo e molto anziano, molto malandato e assistito da un giovane virgulto che lo conduce fin dove sono seduta io.
Immediatamente ci ingegniamo per farlo sedere nel posto libero tra me e una signora che sembra in maniera inquietante Maria Giovanna Maglie (ma non è lei, lo dico per tranquillizzare chi la conosca). Il giovane virgulto cerca di stimolare il povero vecchietto alla conversazione – forse per evitare che si addormenti, perché poi sennò come lo rialziamo? – chiedendogli cosa ha mangiato a pranzo.
Mentre il signore prova a raccontare di brodini, minestrine e petti di pollo ai ferri, la Maria Giovanna Maglie de noantri – senza badare all’età, allo stato fisico o all’etnia dell’anziano signore – si intromette allegramente nella conversazione, offre delle caramelle a entrambi e poi si lancia in un lunghissimo monologo.
Parla, nell’ordine: di suo padre che era di Sulmona; dei confetti, vanto della ridente cittadina; di quanto sia bello l’Abruzzo; infine della feroce diatriba che anni fa ha visto opposte L’Aquila e Pescara per la conquista del titolo di capoluogo di regione. Signo’ – mi verrebbe da dirle – e vabbè le caramelle, e vabbè i confetti… ma se sto povero vecchietto fino a mò nun s’era addormentato, tra un po’ tocca faje er defibrillatore, ché in coma ci va spontaneamente pe’ nun sentì più ’sta solfa che hai attaccato! (E se ve lo dico io che dell’Abruzzo sono notoriamente big fan, ci potete credere!).
Detto questo, però, 1-1: pareggio per chi dice che non siamo razzisti!
Non faccio in tempo ad aggiornare il punteggio che a bordo sale una ragazza italiana, garbata e vestita come una qualsiasi fanciulla del nostro tempo. Ha in mano un cartello su cui ha scritto che è povera, che non ha un lavoro e che non sa come pagare l’affitto.
La cara Maria Giovanna Maglie de noantri, però, ha notato un dettaglio che proprio non le torna e decide di farlo presente a tutto il vagone. Inizia a bassa voce, come fosse una riflessione tra sé e sé, ma più la ragazza si avvicina a noi e più il suo tono diventa quello di un comizio sindacale.
“Ma tu guarda questa” ringhia sdegnata. “Chiede l’elemosina con gli occhiali firmati… ma ci ha preso per cretini?”
Io comincio a guardare gli occhiali per capire di che griffe siano, ma non la riconosco. Per carità, sono l’ultima persona al mondo da interpellare in fatto di moda, ma mi riprometto comunque di continuare a indagare.
“Hai sbagliato strategia, bella!” la voce di Maria Giovanna si fa più intensa. “Se ci volevi fare fessi, dovevi stare più attenta al look. Venditeli, quegli occhiali, prima di venire a chiedere i soldi a noi!”
A questo punto non so più dove guardare, anche se in realtà – fuor di metafora – continuo a guardare gli occhiali per capire di quale marca siano il simbolo una coccinella e una lettera che sembra una B.
“Non è una buona idea prendere la gente per il culo così palesemente, sai?”
La ragazza sta stoicamente cercando di ignorare la signora Maglie de noantri, ma sarei pronta a scommettere che non ci riuscirà a lungo. “Tu e i tuoi occhiali, carina, fareste meglio ad andare a lavorare!”
Eccola là, c’è riuscita: ha detto le parole magiche. La ragazza si gira, la guarda dritto negli occhi come se stesse per esplodere e sibila tra i denti: “Guardi che io un lavoro ce l’ho, non sono mica una zingara… ma ho un affitto da pagare!”
La signora risponde con una scostante alzata di spalle, con uno “Tsè, tsè…” che sembra Bombolo, quindi continua la sua filippica farcita di insulti ed esternazioni qualunquiste da manuale, ma con un tono di voce che decresce in maniera inversamente proporzionale a come è salito poco fa.
Io che ancora non ho capito di che marca siano questi benedetti occhiali con la coccinella, aggiorno il punteggio riportando la compagine dei filo-razzismo sul 2-1 e mi chiedo se devo contare anche la frase con cui, sdegnata, la ragazza ci ha tenuto a sottolineare che non era una zingara. Questo riporterebbe il tutto in pareggio… ma allora – che dite? – forse dovrei contare anche lo snobismo con cui, nelle mie riflessioni, implicitamente passa sempre il messaggio che, rispetto a questi personaggi, so’ mejo io?
Come dicevo all’inizio, alla metro A l’ardua sentenza!