almodovar sotto la metro

Pedro Almodóvar sotto la metro

Come la metto, la metto: questa suona malissimo.

Quindi, tanto vale partire partire dall’inizio, cambiare i nomi propri e sperare di non offendere nessuno. Lettori avvisati, mezzi salvati.

Come mi è già capitato di dire, non mi piace passare per Termini perché non sai mai chi sale, chi scende o in chi ti puoi imbattere.

Per esempio: questi tre terrificanti marcantoni con panza, collane d’oro e tatuaggi nonché due pertiche sudamericane di dubbia matrice sessuale al seguito, ecco, avrei preferito evitarli.

Per diversi minuti, amoreggiano tra di loro con una geometria ondivaga, difficile da schematizzare e anche un pochino ardua da osservare, ma poi all’improvviso a Vittorio Emanuele squilla il cellulare del marcantonio con maglietta rossa a righe blu e tatuaggio gladiatorio sull’avambraccio.

“Cazzo, fratè… Numero sconosciuto!”

“Nun risponne, oh!” Dice il marcantonio con la maglietta blu a righe bianche e tatuaggio rapace sul bicipite.

Tace, invece, il terzo marcantonio con la maglietta a tinta unita e tatuaggio tribale sulla nuca.

(…praticamente, Qui, Quo e Qua.)

“Ma come, nun risponno? Ma che sei matto? Così se preoccupa!”

“Ma che cazzo te frega? Se risponni, ce rompe er culo e me preoccupo io!”

Le due pertiche sghignazzano tra di loro e nel frattempo continuano a strusciarsi sensualmente a turno sul grasso addominale in eccesso dei loro accompagnatori.

Tutto questo elegantissimo siparietto ci mette dieci secondi a stuzzicare la mia curiosità: chi è che chiama? Perché fa tanta paura? Che hanno combinato questi tre attrezzi con le due (tra)veline, rigorosamente una mora e una bionda?

(Ho quasi paura a darmi delle risposte, ma temo che il mio cervello abbia già iniziato a trasmettere immagini che non avevo nessuna voglia di vedere.)

Il telefono, nel frattempo, continua a squillare con una suoneria che sembra un pezzo elettro-house di cui non avrei mai saputo dirvi il titolo, neanche prima che mi sfracassasse la minchia a furia di ripartire.

“Oh, basta. A Cesare, io risponno.”

“No, fratè! Te prego…”

Troppo tardi. Ma non per me, che muoio dalla curiosità: sarà mica la fidanzata di Cesare? Magari lo ha beccato a farsi le storie con la (tra)velina mora… Magari ha beccato tutti i qui presenti insieme, coinvolti in un’orgia di genere confuso di quelle che passano alla storia…

Ma, soprattutto, crederà alle panzane che stanno per esserle propinate?

Non vedo l’ora di ascoltare le doti oratorie del marcantonio, all’opera in una supercazzola da manuale.

“Ahoó?… Oh Tamà, sei teeee…”

(Maddai? Che fosse lei, l’avevo capito persino io che non c’entro niente!

Come inizio, da paura.)

“Chi? Cesare?! No, nun sto co’ lui… Sto in metro, lo sto a annà a pijà. Vói che je dico qualche cosa?”

(Non vi stupirà sapere che quella che segue è attualmente in nomination con altre nove, per vincere il titolo di telefonata più scombinata della storia.)

Cesare fa finta di non essere lì, anche se in maniera piuttosto inusuale: parla a voce molto alta con l’amico e racconta a lui — ma di fatto anche a me, a Tamà e a tutto il resto del vagone — tutti i motivi per cui vuole rimanere in incognito.

Non bisognerebbe certo scomodare Sherlock Holmes per dedurre che in effetti Tamà ha sgamato la misteriosa zozzeria e che ora cerca Cesare per investirlo letalmente con un suv rubato, ma il seguito della telefonata non mi dà la soddisfazione di capire meglio l’incidente scatenante di tutto l’ambaradam.

Vista l’entità dei soggetti coinvolti, tutto sommato, c’è da chiedersi perché mi stupisco.

“No, Tamà… Te l’ho detto, Cesare nun sta qua. Lo devo annà a beccà a Piazza de Spagna.”

“Ecco, bravo Michè. Dije così, che nun pói capì che m’ha combinato ieri ‘sta malata de mente. ‘Na pazza…”

(Oh, bravo: se ce lo dici pure a noi, ci fai un favore, va’.)

Le due pertiche latine se la ridono della grossa, noncuranti della tensione telefonica: sono realmente consapevoli nonché maliziosamente compiaciute di essere la causa del delirio in corso? O sono piuttosto io che ormai ho deciso che è così e che quindi leggo ogni indizio in quest’ottica?

Ai posteri l’ardua sentenza.

(…ma beati loro, i posteri, che non devono assistere allo struscio pelvico internazionale che i fantastici cinque stanno mettendo in scena davanti ai miei occhi, mai troppo assuefatti.)

“Tamà, bella de casa… Te l’ho detto, qua nun ce sta. Però se te posso aiuta’ in qualche altra maniera, mo che ‘o vedo…”

“Ecco bravo, vedi pure se te dice quello che cazzo ha combinato ieri sera, Michè.” Cesare continua il suo sfrontato controcanto ad alto volume, mentre le (tra)veline lo vezzeggiano adoranti. “Fattelo dì come s’è messa a urla’ a tiramme ‘a robba, a bestemmia’…”

Chiamatemi pure paranoica, o anche semplicemente impicciona, ma secondo me ho ragione io. Secondo me, qua si tratta di promiscuità sessuale bella e buona. E anche del fatto che Tamà non l’abbia presa molto bene, direi.

“Fattelo dì che è finita che se semo tajati co’ le forbici tutti i vestiti l’uno coll’artra! ‘N casino, è successo, Michè… ‘N casinoooo!”

Un casino? I vestiti? Con le forbici? Ma perché? Eh? Perché?

Avrei capito un manrovescio, una chiamata alle guardie, una cacciata di casa, persino; ma il taglio dei vestiti con le forbici davvero mi sfugge. Se tanto mi dà tanto, ‘sta storia può finire anche in tragedia e mi sa che se continua così io scendo prima di Furio Camillo, hai visto mai.

Tra le (si spera) iperboli di Cesare e il (più che doveroso, lasciatemi dire) scetticismo di Tamà, Michè continua la stressantissima telefonata fino a Ponte Lungo, il che vuol dire — calcolando una media ponderata di due minuti a fermata per un totale di quattro fermate — circa otto minuti. Un eroe, tipo.

All fine, riesce a convincere Tamà di essere arrivato a Spagna e che farà di tutto per metterla in contatto con Cesare, il quale nel frattempo alterna smadonnamenti indiavolati a fusa con le pertiche. Io, invece, ancora non sono riuscita a cavare il busillis della storia. E rosico alquanto, perché siamo arrivati a Furio Camillo e quindi non lo saprò mai. E neanche voi.

(Sono mortificata, gente, lo so che questa non me la perdonerete.)

Mi accingo a scendere e a salutarli mentalmente perché il fatto che non li rivedrò mai più, per certi versi, mi suscita nostalgia. A sorpresa, però, mi accorgo di essere in errore: i fantastici 5 scendono insieme a me, prendono la mia stessa scala mobile, imboccano la mia stessa uscita. Vedo Cesare andare verso sinistra con la (tra)velina mora e Michele invece verso destra con la (tra)velina bionda.

Sono di zona? Ho visto qualcosa di compromettente e ora rischio la vita? Avremo mica degli amici in comune su Facebook? Sarà davvero il caso che io racconti questa storia?

Ovviamente, sono andata nel panico e me ne rendo conto anche da sola. Ora che guardo meglio, però, mi rendo conto che il terzo amico rimasto tristemente anonimo, si è fermato al chiosco a prendere una birra. E sinceramente, la consapevolezza che potrei rivedere in giro per il quartiere questa allegra masnada di soggetti mi sciocca talmente tanto che quasi quasi mi fermo a bere con lui.

Se non altro, mi porto avanti col lavoro.