Quando a Roma piove, ormai l’hanno capito tutti, non è come se piovesse in qualsiasi altro posto del mondo. No.
Quando a Roma piove, la gente impazzisce, il mondo si capovolge e per tornare a casa ci vuole la benedizione del Pontefice Massimo (come minimo).
Io tutto questo lo so bene, pertanto – dopo due giorni consecutivi di bombe d’acqua, grandine, alluvioni, El Niño, Ciclope e nonno che va in carrozza – quando mi accingo a salire a Lepanto per tornare a casa non nutro particolari speranze di fare un viaggio pacifico.
(E per fortuna, perché non l’ho mica stabilito io l’assioma per cui la speranza è l’ultima a morire, ma chi visse sperando morì… non si può dire.)
Stranamente, la metro arriva subito e nonostante la ressa riesco a salire a bordo.
Stranamente, tra decine e decine di persone zuppe e infangate, trovo persino posto a sedere.
Cavolo, quasi quasi devo ricredermi sul mio scetticismo iniziale: nonostante il diluvio universale, funziona tutto. Da non credere, funziona anche il monologo della zingara che chiede l’elemosina!
Esatto. Sto parlando di quel monologo piatto, cantilenato e divoracoglioni che – all’incirca un convoglio sì e un convoglio no – torna a risuonare nelle orecchie del malcapitato viaggiatore.
“Buonasèra siniori… sono una povèra ragazza con una filia appena nata…”
Appena lo sento, anche per dimenticare i jeans inzuppati e le scarpe piene di fango, inizio a recitarlo tra me e me per vedere se vado a tempo: l’ho sentito talmente tante volte che ormai mi compiaccio di come lo so dire bene pure io!
Non è della stessa opinione – ahimè – un signore che sta mi sta accanto, in piedi: “Aje…”, commenta seccato, parlando un po’ da solo come sanno fare certi signori sui mezzi pubblici (o allo stadio, in alcuni casi). “Eccotela tiè, la solita che passa… Oh, sono anni che sta qua, ’sta zingara… Ci si è invecchiata dentro alla metro nel frattempo! La figlia ormai andrà alle elementari, altro che appena nata!”
La considerazione mi fa sorridere, lo confesso, ma il tempo per gustarmi l’ironia del momento non ce l’ho.
Nell’attimo stesso in cui la metro si ferma – Repubblica, uscita lato destro – si crea un discreto parapiglia davanti alla porta.
Gente infangata che spinge per entrare, gente zuppa che sgomita per uscire, gente asciutta che urla allarmata, gente incazzata che cerca di ripristinare l’ordine.
Sarà un tentativo di furto, penso tra me e me, basandomi sull’esperienza accumulata nel tempo (…che se fossero punti delle merendine, da mo’ che avevo vinto la brocca e le tazze del Mulino Bianco come negli anni ’80!).
In realtà, la stessa riflessione la fa il signore accanto a me, sempre quello di prima. Solo che lui lo fa di nuovo ad alta voce, di nuovo parlando da solo e soprattutto con molto, molto più stile di me.
“Mortacci loro, ’sti zingari! Prima se fermano sulle scale, poi nun te fanno passa’, poi dalle scale se fermano… E alla fine te sfilano er portafogli!”
Logica ineccepibile, almeno stando alla statistica suburbana. Vaglielo a spiegare, però, a quelli che continuano a schermagliare davanti alla porta e non la lasciano chiudere.
“Aho, e falla finita!”
“Se nun te levi dar cazzo, chiamo la polizia!”
“Attenti ai portafogliooo!”
Durerà ancora un po’, mi pare evidente.
Esattamente un altro paio di minuti, al termine dei quali i passeggeri riescono a salire a bordo, i fantomatici zingari (che comunque nel tafferuglio io non ho mica visto)finiscono per mollare il colpo con qualche spruzzo d’acqua sparso qua e là e il convoglio può finalmente proseguire il suo percorso.
“Et voilà, finalement!”
Alzo gli occhi: non me n’ero accorta finora, ma alla mia sinistra ci sono due signori francesi sulla settantina, ben vestiti e dall’aria molto raffinata.
(Loro sono asciutti, Dio solo sa perché.)
Si capisce che l’episodio appena trascorso li ha scossi dal placido torpore di borghesi pensionati in vacanza, ma stanno comunque cercando di darsi un contegno.
Li vedo studiare la mappa delle fermate affissa sopra la porta di uscita, con evidente difficoltà: “Vittoriò Emanuelé… C’est au milieu, n’est pas?”.
(Sì, signora… È in mezzo. In mezzo a cosa? Alle scatole? Alla città? Alla linea A? Boh, vai a sapere.)
Mentre il marito cerca di capire il tragitto da percorrere, la signora intercetta la voce registrata che comunica di volta in volta la fermata successiva: “Repubblica – Teatro Opera… Uscita lato… destro…”. E si chiede, perplessa: “Destrò… Ça veut dire à droite?”.
(Sì, signora… Vuol dire a destra, ma a lei – mi scusi – che le cambia? Tanto la porta da una parte sola si apre, mica la fanno schiantare contro il muro!)
Il marito non sa cosa voglia dire destro in italiano e non le risponde.
I due rimangono in silenzio per un po’, guardandosi perplessi nell’attesa che arrivi la fermata di Vittorio Emanuele, dove scenderanno per andare incontro al proprio destino, che fino al momento è fatto di zingari, pioggia e incomprensibili informazioni in italiano.
A giudicare da come sembrano sconvolti, secondo me, a Piazza Vittorio a stento riusciranno ad attraversare le strisce pedonali.
Morale della favola: quando ti vorresti sparare perché sei distrutto, piove e in metro ci sono gli zingari mariuoli, pensa che potrebbe andare peggio: potresti essere un francese in vacanza a Roma.