Lui & Lei

È un momentaccio. Fa un caldo che si muore, lavoro a un programma di stampo ospedaliero che mi sta togliendo i sentimenti e la metro va avanti a singhiozzo, rendendo l’interno dei vagoni un amalgama di lacrime, sudore e sangue di cui non sentivo affatto il bisogno.
A Re di Roma, li vedo entrare…
…Lui e Lei.

Sono due ragazzi affetti da sindrome di down e, per quanto la mia esperienza lavorativa attuale mi abbia conferito un certo know-how, non saprei dire quanti anni hanno. Quello che capisco subito, però, è che stanno insieme e che si amano alla follia, quel tipo di follia che farebbe tanto, ma tanto bene a numerose coppie sbrindellate che si vedono in giro e che, erroneamente, credono di essere felici.
Sin dal loro ingresso a bordo, la faccenda si delinea chiaramente: a causa della calca, delle borse sparse e degli scossoni del convoglio, Lui inciampa, si addobba e si spiattella contro uno dei sostegni metallici.
Pija ‘n palo, in poche parole, e nonostante siamo in parecchi ad offrirci di dargli una mano, Lei ce lo impedisce categoricamente.

Ci guarda malissimo e ci manda direttamente a cagare: ci pensa Lei e punto. Aria, sció, ciccia. Rivelando una forza che non tutti si sarebbero aspettati, rimette Lui dritto sui suoi piedi e inizia a coccolarlo con una serie di ripetuti e provocanti massaggi che generalmente non si dovrebbero a vedere a bordo di un mezzo pubblico.

(Non si dovrebbero proprio vedere in pubblico, diciamo.)

Lo guarda con occhi che sono tutto un programma e, maliziosa, bofonchia: “Lasciamoli perdere, questi. È molto meglio se ti tocco io, veroooo?”
Lui annuisce, si gode il trattamento per un po’ senza preoccuparsi di dissimulare… poi, però, all’improvviso abbassa lo sguardo con una punta di disagio.

(Oddio. Che hai combinato, amore di casa? Non riesco a non chiedermelo, con la stessa identica punta di disagio.)

“Ti devo dire una cosa, amo’…”
“Dimmi tutto, teso’…”
“L’altra notte non so’ riuscito a resistere, amo’…”
“E che hai fatto, teso’?”
“Mi sono toccato da solo… e non ho pensato a te.”

(Oddio. Tralasciamo per un attimo il fatto che so benissimo che io non dovrei ascoltare queste cose, ma le stanno dicendo a una spanna dal mio orecchio e di certo non a voce bassa, quindi non so proprio come fare per evitarlo. In primis, perché il punto è un altro: a giudicare dall’incazzosissima espressione di Lei, temo che ora lo ucciderà a badilate e che io arriverò in ufficio coperta di sangue come Dexter nelle sue puntate migliori.)

Segue minuto di silenzio, teso, contrito e privo di possibili interpretazioni.

Poi, Lei guarda Lui: di nuovo occhi che sono tutto un programma, di nuovo mani impertinenti e audaci, dice: “Te possino, teso’… ma da quant’è che stamo ‘nsieme?”
E Lui: “Amo’, cinque anni…”
“Ecco. E che ti credi, che in tutto questo tempo non l’ho fatto pure io, qualche volta?”
Scoppiano a ridere fragorosamente, come se avessero appena fatto uno stupido scherzo telefonico a qualcuno, e poi si baciano.

(Io, intanto, all’improvviso penso a come è finito male il matrimonio dei miei genitori e rifletto sul fatto che, quando ci sono l’amore e il coraggio di parlare con il cuore in mano, alla fine le cose in un modo o nell’altro si sistemano. Ma magari mi sbaglio, che ne sai.)

Quando termina l’impeto passional-pacifista, più o meno all’altezza di Manzoni (che come tutti sappiamo era più pacifista che passionale), Lei torna a guardare Lui con un sorrisetto di sfida che aiutatemi a descriverlo e annuncia: “Lo sai che io a mia madre di noi due gli dico tutto?” E Lui, con un rivolo di sudore che in questo preciso frangente non si direbbe dettato dall’afa:
“Ma proprio tutto? Tutto tutto?”

E Lei: “…si!”

Il panico adolescenziale si manifesta con prepotenza nella sua bocca spalancata: il labbro inferiore è crollato giù come se qualche minuscolo gnometto dall’interno avesse sganciato la cerniera che lo teneva issato. Lui – glielo leggi in faccia – sta cercando di dire qualcosa per capire se la sua amata abbia spifferato anche questo, quello e (Dio non voglia!) anche quell’altro, ma per sua fortuna nel frenetico viavai causato dall’arrivo a Termini accanto a noi si libera un posto.
Io a sedermi non ci penso neanche, un po’ perché voglio continuare a godermi la scena da qui e po’ perché Lui ci si è fiondato contro a una velocità talmente elevata che non avrei fatto
in tempo neanche a provare a seguirlo.
Lei è rimasta ferma, impietrita e furibonda, a guardarlo con scritto in faccia a caratteri cubitali (e gotici): qui giace la cavalleria maschile. Ho la sensazione che il caro Lui, dopo questa bravata, a casa potrebbe non tornarci più ma la dea bendata interviene una seconda volta in sua difesa, liberando proprio il posto accanto a lui.

(…ma che è oggi, si alzano tutti? Ma quando il posto a sedere serve a me, mai… eh?)

Nel momento esatto in cui Lei raggiunge Lui sui sedili, quei pochi a bordo del vagone che ancora non si erano accorti di loro gettano la spugna e cominciano a fissarli senza ritegno. Quella che sta avendo luogo è una pomiciata di dimensioni bibliche, di quelle che neanche sul muretto della Scuola Media Statale Grazia Deledda. Preso dall’impeto – giuro, non sto esagerando; non sarebbe neanche carino – in certi momenti lui si alza anche in piedi per gestire meglio la situazione, totalmente ignaro dell’anziana signora nei pressi che li sta guardando con tutto il disappunto che riesce a trovare dentro di sé. Li squadra, cerca di frapporre un po’ di spazio fra se stessa e loro ma data la concitazione della scena in corso non ci riesce, prova a conviverci ma è tutto inutile. E alla fine si alza.

(Questo sarebbe per me il momento giusto per accaparrarmi il mio sacrosanto posto a sedere ma, vi dirò, preferisco rimanere in piedi. Spero capiate.)

Nel frattempo, tra un bacio, una tastatina e un sospiro strozzato, il nostro convoglio è arrivato a Flaminio e i ragazzi sono costretti a interrompere la loro pubblica e poco velata interpretazione del concetto di amore libero perché devono scendere.
Dato che però – com’è risaputo – con gli ormoni a piede libero non si scherza, nell’intento di fare strada al primo passo Lui sbarella pesantemente. Rischia di cadere, non trova appoggio e risolve la spinosa situazione facendo lo scemo con Lei che invece, tutta compunta e in controllo del momento, lo guarda dall’alto in basso.
Gli dice: “Nun te preoccupa’ amo’… te reggo io.”
E Lui: “Grazie amo’, sei la mejo. Nun te preoccupa’ che nun puzzo: me’ so’ fatto la doccia ieri.”

E Lei: “Guarda amo’ che pure io.”
Lui: “Ma io me la so’ fatta perché c’avevo la capoccia tutta appiccicata.”
E Lei: “Ma che vor di’?”
Lui: “Ma sì. Nun te ricordi che me so’ fatto l’en… l’ence… l’encefalo…”
E Lei: “…gramma?”
Lui: “Eh, quello. C’era la colla, me so’ tutto appiccicato.”
E Lei: “Ma che te l’hanno messo pure in capoccia?”
Lui, conclusivo, sapiente, maestoso: “Eh… me sa de sì, amo’.”

E mentre li vedo uscire, sento nettamente una parte di me stessa che – tra il caldo, il lavoro, la metro e i cazzi vari – desidererebbe ardentemente fare a cambio per assaporare un briciolo di quella spensieratezza, leggerezza e voglia di vivere che molte persone (in condizioni molto meno difficoltose dei nostri Lui & Lei) non saprebbero nemmeno dove stanno di casa.