Stracci bagnati sul 360

A volte mi capita di prendere il 360 per tornare a casa. È raro, ma capita. E quando capita, mi ricordo perché è raro. Ancora prima della quantità, la qualità di soggetti fuori squadro che lo popolano fa impressione persino a me che posso ormai definirmi un’esperta del settore.

Oggi almeno ho trovato subito posto su uno dei sedili accanto all’entrata posteriore.

In piedi di fronte a me c’è un giovane di neanche vent’anni: felpa con il cappuccio, pantaloni corti, scarpe da ginnastica, capelli castani lisci e sulla fronte un prorompente ciuffo biondo platino. Non saprei dire perché, ma è evidentemente concentrato a squadrare da capo a piedi una ragazza che mi è seduta accanto. Lo vedo aggrottare la fronte pensieroso, poi lo sento bofonchiare qualcosa, poi capisco che è molto arrabbiato; e non ho più dubbi quando – poco dopo – dice a voce alta:

“Me stai a guardà, eh?” (Veramente sarebbe il contrario, mi viene da dire, ma mi guardo bene dal farlo perché tanto qua già ho capito che aria tira e non mi sembra il caso di cercare guai gratis.) “…che cazzo ti guardi? Devi morire. Devi morire, brutta testa di cazzo schifosa!

Detto ciò, lo vedo avventarsi contro una delle lastre di plexiglass che a volte separano le file dei sedili e sferrarvi contro una manata abbastanza forte, che ovviamente non la rompe ma che gli causa un discreto dolore.

Si vede benissimo dall’espressione contrita con cui non riesce a dissimularlo, mentre cerca (invano) di mantenere la postura da uomo vissuto. The show must go on, cazzo, lo dicono anche i Queen!

A prescindere dal noto principio, la ragazza non fa una piega, richiude la rivista che stava placidamente sfogliando, prenota la sua fermata e – senza degnare il tipo di uno sguardo – scende per andare incontro al suo destino.

(Che sicuramente sarà migliore di quello che avrebbe se rimanesse a bordo di questo 360, insieme a me e al malato di sindrome di Tourette qui presente. Perché siete d’accordo con me che questa diagnosi è la spiegazione più probabile di quello che ho appena visto accadere, vero?)

Lo scurrile ragazzetto segue con lo sguardo la ragazza lungo la strada, senza mai smettere di biascicare incomprensibili anatemi e soprattutto senza muoversi di un millimetro dalla sua posizione.

All’improvviso, la sua attenzione viene catturata – dio solo sa perché, ma forse neanche lui – da un signore seduto accanto a me, che ha malauguratamente incrociato il suo sguardo. Si tratta di un discreto marcantonio sulla trentina, con la corporatura massiccia e confortante che solo certi operai possono permettersi di sfoggiare, un’abbondante chioma ricciuta e un aspetto che lascia intuire delle origini meridionali. A guardarlo, si direbbe il tipo adatto a fermare la follia verbale in corso e io voglio confidare in lui, soprattutto quando mi accorgo che il folle incappucciato si è destato dal suo torpore per andargli incontro con aria spavalda.

Ha tutta l’aria di voler ripetere l’exploit di poco prima, ma c’è qualcosa nel suo atteggiamento che all’improvviso tradisce incertezza. E proprio su quell’incertezza fa leva l’amico operaio che –  vedi che c’avevo visto giusto? – ancora prima che il tipo parli, decide di mettere in chiaro due cosette.

“Che minchia vuoi, eh? Che problema c’hai, picciotto? Vedi di stare al tuo posto oppure scendi dall’autobus.”

Preso evidentemente in contropiede (e grazie al ciufolo! Siamo tutti bravi a fare i gradassi contro il gentil sesso) il folle ammutolisce, arretra e si affretta a distogliere lo sguardo che è ormai quasi assente.

Con una punta di malincuore, vedo avvicinarsi la mia fermata: mi avvio verso l’uscita e – pensa tu! –  l’amico squinternato fa lo stesso.

Non so dove stia andando, ma so che mi devo affrettare a salire sul 665 in arrivo, altrimenti a casa potrei anche non arrivarci mai. Una volta a bordo, mi sento più sicura, protetta da aggressioni linguistiche e anche dallo smog che da queste parti abbonda. Soprattutto, però, mi sento più sicura quando all’altezza di Piazza Epiro rivedo l’amico Tourette vagabondare con aria stralunata, probabilmente alla ricerca di una nuova vittima.

Che, per fortuna, non sarò io perché di insulti già ne prendo tanti ogni giorno al lavoro.

 

(Questo racconto è stato scritto a quattro mani con Carlo S., lettore di “Giulia sotto la metro”).