Fermata prenotata

No, vabbè: mi arrendo.

La mia amica Laura è una che in genere non spara balle e che difficilmente litiga con la gente, quindi sentite che roba e rendetevi conto.

Sera autunnale romana classica, con pioggerellina, umidità e rodimenti di culo in ordine sparso. Laura se ne sta a Viale Ostiense, in attesa paziente e solitaria del passaggio di un 673.

(Uno, uno qualsiasi. Ma anche tutti, tutti… tranne quello che vede arrivare dopo diversi minuti.)

Laura fa qualche passo verso il punto dove crede che l’autobus si fermerà per lasciarla salire a bordo, ma con grande sorpresa lo vede tirare dritto davanti ai suoi occhi come se lei neanche fosse lì.

(…E dire che lei lì neanche ci vorrebbe essere, quindi fate un po’ voi.)

Si dà il caso — strano, non succede mai — che Viale Ostiense sia completamente intasata da un flusso di macchine senza inizio e senza fine; pertanto, il veicolo fuggiasco è costretto a fermarsi poche decine di metri dopo.

Senza pensarci un dannato secondo, Laura lo raggiunge di gran carriera (e voi forse non la conoscete, ma come procede di gran carriera lei… nessuno al mondo, giuro.) Bussa più volte alla porta davanti fino a che l’autista — sempre lui, quello che disconosce il pedale del freno — si decide ad aprire la porta.

Due opzioni, adesso, per la mia amica Laura: glissare sulla spinosa questione e andarsi a cercare un meritato posto a sedere, oppure affrontare il pubblico dipendente con un doveroso interrogativo.

“Mi scusi, autista…” Eccola: complice un semaforo ancora rosso e una fila di macchine sempre più lunga, ha già scelto la sua prossima mossa. “Potrebbe spiegarmi come mai non si è fermato, prima?”

“Signorì, guardi che se vóle salì… la fermata la deve prenotà!

(E come? Ti risulta per caso, o autista riottoso, che per strada ci sia un pulsante da schiacciare proprio come quello che è a bordo?)

A questo punto, potrebbe partire già il primo insulto… non necessariamente quello che inizia con VA e finisce con LO, ma anche un più morigerato imbecille andrebbe bene. Laura, però, è ancora troppo incredula per poter reagire.

E il semaforo è ancora rosso.

“Ma c’ero solo io alla fermata…e mi sono anche avvicinata all’autobus. Cos’altro dovevo fare, secondo lei?”

Arza’ er braccio.

Ritorna nell’aria l’eco di quel VA…LO non detto, ma Laura non cede. È una che ci tiene alla logica dei ragionamenti, lei, e non si arrenderà facilmente all’irruenza dell’invettiva ancestrale.

“Prego? Ne è sicuro? E quando siamo 50 persone alla fermata dell’87 ai Fori Imperiali che succede? Ci chiedete uno a uno per quale linea stiamo aspettando?

“Se arzate ‘a mano, vedi che ve lo chiedemo.”

(Farà prima l’autista ad ammettere che se n’è sbattuto di un passeggero in attesa alla fermata o Laura a mandarlo a prendersela in quel posto?)

“Senta, abbia pazienza.” Laura potrebbe cedere, ma quello che l’autista non sa è che lei è campionessa interplanetaria di yoga. Potrebbe andare avanti così all’infinito, forse. “È consapevole del fatto che io potrei prendere i riferimenti di questa vettura e fare una segnalazione?”

“Nun ‘o po’ ffà.”

“Ah, no? E perché?”

“Aridaje. Perché nun ha arzato ‘a mano.”

“Ah, ecco. Come no.”

(Stavolta potrebbe mancare davvero poco, vi avviso.)

“Lo sa che c’è?”

“Che c’è?”

(-3… -2… -1… )

…Che spero che passi la notte sulla tazza del cesso!

(Meglio di un vaffanculo. Molto, ma molto meglio…almeno secondo me.)

(Tratto da una storia realmente accaduta a Laura V., lettrice di “Giulia sotto la metro”)