Oggi, per una volta, parliamo di autobus.
Nella fattispecie del 63, che si aggira per un universo a me completamente ignoto, ovvero viale Somalia dopo Conca D’oro.
Arrivo alla fermata e mi accingo ad aspettare dio solo sa quanto: un po’ guardo la strada e un po’ controllo le notifiche sul cellulare, quando mi rendo conto troppo tardi che il bus in effetti è arrivato. Solo che si è fermato diversi metri prima rispetto a me, ha già compiuto le operazioni di carico e scarico passeggeri e ha bellamente ripreso la sua strada.
Messa di fronte alla realtà dei fatti, recupero quei due o tre neuroni che ancora mi restano a fine giornata, faccio appello alla reattività delle mie fibre muscolari e mi convinco di essere Usain Bolt sul tartan di Londra 2012: lo stratagemma funziona e riesco a riacciuffare l’autobus per poi salire a bordo prima che sia troppo tardi.
(…con il fiatone che mi ritrovo adesso, potrebbe essere troppo tardi a prescindere.)
Nel frangente, comunque, non è questo il problema. E soprattutto, per fortuna, ad avere un problema non sono io ma una signora che – nonostante abbia doverosamente pigiato il pulsante per prenotare la fermata – non è potuta scendere dove voleva, perché l’autista ha tirato dritto.
A quanto pare, la contingenza per lei non è poi così grave perché la vedo scendere tranquillamente alla fermata successiva senza particolari sconvolgimenti emotivi.
Chi ne risente è un’altra signora, tra l’altro priva di legami con la diretta interessata se non quello di aver assistito all’accaduto. È pronta a dimostrare tutta la sua indignazione per il fatto che l’autista non abbia sentito lo scampanellio della prenotazione, in quanto impegnato in un’animata conversazione telefonica.
(Mi rendo conto: è difficile individuare la sottile linea trasparente posta tra l’altruismo e l’irrefrenabile necessità di farsi i cazzi altrui. A Roma più che altrove, forse.
In questo caso non sono ancora in grado di stabilire se la situazione sia da collocare al di qua o al di là di detta linea, ma sono certa che la storia presenterà il conto alla fine.)
Lo dice chiaro e forte, la signora, che il divieto di parlare al conducente riguarda anche eventuali interlocutori telefonici; lui, però, si difende con un’impeccabile risposta pronta all’uso: “Ah bella: una vestita come te se deve solo che sta’ zitta.”
“Ma come si perm…”
“Zitta, ho detto.”
“Mi scusi, ma…”
“Non devi parlare, stai muta.”
Com’è facile supporre, questo non è che l’incipit di un momento di sana guerriglia verbale nel bel mezzo del 63 pieno come un uovo (ma con una ragazzina che riesce comunque a starsene sdraiata su due sedili senza che nessuno le dica nulla). Tra i protagonisti che si aggiungono alla vicenda – lo specifico per amore di cronaca – c’è una signora di mezza età e piuttosto in carne, dall’abbigliamento etnico e il taglio alla mohicana, che dà ampio sfoggio di dimestichezza nel turpiloquio.
I toni crescono a velocità piuttosto rapida, fino ad arrivare a un climax drammaturgico che vede la signora intenta a minacciare di aprire le porte per saltare giù dal veicolo in corsa (…ma se po’ ffa? Boh.) L’autista contrattacca, saltando per ripicca alcune fermate e ignorando le violente proteste degli impotenti passeggeri che non hanno preso parte alla vicenda, ma che – dategli torto – speravano di poter scendere per tornare a casa propria.
Alla fine, arriviamo al punto in cui l’autista si stanca di giocare a so’ mejo io e la signora si stanca di urlargli contro tutti gli appellativi sgradevoli che le vengono in mente: lui apre le porte e lei scende – stando alle dichiarazioni contrariate – almeno un paio di fermate dopo rispetto a quella preventivata.
Morale della favola? Io non lo so se la nostra cara protagonista della vicenda abbia deciso di intromettersi per spirito civico o per protagonismo. Una cosa, però, la so di sicuro e tutto ciò la conferma a pieno.
Chi si fa i cazzi suoi, campa cent’anni.
E daje, su: pure mi’ nonna lo dice sempre.
(Tratto da una storia realmente accaduta a Sama D., lettrice di “Giulia sotto la metro”)