Una tematica particolarmente cara (e ricorrente) tra i confratelli e le consorelle che si radunano alle fermate in attesa di autobus che – forse – non passeranno mai è la Gloriosa Schiatta dei Conducenti.
Spesso privi di freni, sia di natura servomeccanica sia di coscienza, gli appartenenti della Schiatta non giudicano mai i passeggeri dal loro aspetto o dal sesso: uomo o donna che siano, che si tratti di Shakira, della Sora Lella o della signorina Silvani di Fantozzi verso la fine della saga, i Conducenti rispondono alle richieste sempre con gentilezza e cortesia, basandosi sulle quattro esaustive risposte precompilate nel prontuario che (evidentemente) viene fornito loro il primo giorno di servizio:
“A signò, ma io che ne so?”
“Nun ho sentito er campanello!”
“Famose a capì: io parto quanno parto!”
“Ahò, nun me rompe ché so’ arrivato mo!”
A volte, però, possono capitare delle inspiegabili eccezioni in cui gli appartenenti alla Gloriosa Schiatta arrivano a dimostrarsi servizievoli, gentili, persino cordiali.
Una di quelle volte è oggi, giorno sfigato e sofferente che mi porta in uno degli ultimi avamposti romani ancora relativamente protetti dalla barbarie che imperversa sull’Ardeatina fuori dal raccordo, in cui mi trovo a scegliere tra due linee di autobus il cui passaggio ha una frequenza leggermente inferiore alle eclissi totali di luna.
Per aiutarmi a stabilire quale delle due potrebbe essere la scelta migliore per il mio ritorno a casa, gli autoctoni in capannello alla capolinea mi spiegano che i conducenti di entrambe le linee vengono appositamente selezionati da una commissione speciale che ne verifica livello di istruzione, senso dell’orientamento, dizione, lingue parlate e – last but absolutely not least – attitudine al rapporto col pubblico.
Solo coloro che superano la rigorosa selezione possono aspirare a guidare le vetture delle due (…richiestissime? Temo di no) linee di cui sopra.
Alla fine, la mia decisione viene agevolata dalle contingenze dell’immediato: ovvero, stanca di aspettare, decido di prendere il primo autobus che arriva e a bordo del quale salgono con me praticamente tutte le persone che erano in attesa, anche da prima che arrivassi io alla fermata.
(Rimanere ad aspettare da sola in questa landa desolata, dimenticata da Dio e dagli uomini?
Piuttosto salgo pure su un risciò. Hai visto mai passa.)
Delle tre tipologie di passeggeri citati poco prima, quella che in breve prende il sopravvento sulla scena in corso è un’avvenente signorina modello Shakira che tutti si girano a guardare dal momento esatto in cui sale a bordo, compreso il Conducente, con tanto di pelo esposto al di sotto del monile celtico al collo, maniche arrotolate al bicipite, occhiale da sole e barbetta di una settimana.
“Signorina! Ha aspettato tanto anche oggi?” Le chiede, rivelando la sua natura di passeggera abituale. “L’ altro giorno l’ho vista stanca, mi spiace!”
(Al customer care statunitense je fa un baffo, by the way…)
“Prego?!” Negli occhi di lei si percepisce la vastità dell’interesse che la domanda ha sortito.
“Non si ricorda di me?” Un briciolo di delusione, seppur velata, in lui si avverte. “Ero di servizio anche l’altro giorno…”
Shakira annuisce, piazzando nel dubbio un imbarazzato sorrisino di convenienza, mentre una vecchietta modello Sora Lella interrompe l’interazione virtuosa tra i due baldi giovani per chiedere informazioni al Conducente della Gloriosa Schiatta. Non se ne accorge, ma con il suo intervento rischia di scatenare lei da sola l’intera scena finale di Bastardi senza gloria.
L’Apocalisse viene rimandata solo perché al Conducente non converrebbe scatenare il Mario Brega che é in lui davanti agli occhi dell’ammaliante Shakira: all’insulto strozzato in dialetto strettissimo, preferisce uno slalom perfetto fra i paletti della grammatica italiana al fine di tradurre in lingua ufficiale il primo comandamento del modulo precompilato della Gloriosa Schiatta (…a signò, ma io che ne so?, lo ricordiamo per i più sovrappensiero) e poi aggiunge con un colpo da maestro definitivo: “Signo’, qua ce batte er sole: perché nun se siede laggiù che c’è sta l’ombra?”
(La stesa frase, priva di filtri idiomatici, risuonerebbe più o meno: “Bella, scartavétrate dar manico della panza, ché devo batte i pezzi a Shakira”.)
Il mirabile intervento, purtroppo, cade, nel vuoto perché la fanciulla nel frattempo ha ricevuto una telefonata (che pare) importante; così, nell’attesa, l’esponente della Gloriosa Schiatta, che in tutto questo non ha ancora acceso il motore e tiene il suo bestione ancorato al capolinea, è costretto ad accendersi una sigaretta e a dimostrare un fortissimo interesse per lo sporco incrostato sul suo sedile.
(Inizia persino a pulirlo col piede, badando bene a mostrare uno sguardo contrito e sinceramente dispiaciuto per lo stato in cui versa il bus.)
Com’era facile supporre, la telefonata va per le lunghe e l’amico autiere è costretto finalmente a partire a causa di quella leggendaria tabella di marcia la cui esistenza, a Roma, si tramanda oralmente di padre in figlio. Io scendo dopo qualche fermata per intercettare un’altra linea che mi avvicinerà ulteriormente a casa. Un attimo prima che le porte si chiudano dietro di me, mi rendo conto che la telefonata della Shakira è finalmente terminata, che il Conducente della Gloriosa Schiatta non ha mai smesso di tenerla d’occhio (tanto il bus la strada la sa…) e che non appena lei ha riposto in borsa il telefono lui è ripartito alla carica con un galantissimo:
“E dove posso portarla oggi, bella signorina?”
Quanta gentilezza. Quanta professionalità. Quanta eleganza, tra gli appartenenti alla Gloriosa Schiatta.
Se rinasco, mi ci iscrivo ancora prima di uscire dall’incubatrice. Giuro.
(Questo racconto è stato scritto a quattro mani con Luca C., lettore di “Giulia sotto la metro”)